Apologia di un buonista


“Il buonista sta nella condizione riposante di chi si sente a posto eticamente, vive la tranquillità di chi non può essere attaccato perché è (apparentemente) nel giusto, si gode il suo relax morale e esistenziale anche se fuori da quello c’è il disastro, vive di idee ricevute da altri e sta bello comodo nel suo solito tran tran“.

Quando lessi sul messaggero di qualche mese fa questa esplicita definizione di “buonista”, il mondo cibernetico che avevo davanti, fatto di virtual-stantamariagoretti della digitazione facile, improvvisamente mi diventò chiaro tanto nella sua incolta letteratura d’avanguardia quanto nelle sue interrotte sinapsi cerebrali.

Ebbene sì! Perché è vero che il “buono per forza” è colui che va a letto sereno la notte convinto che, aver difeso questa o quell’altra minoranza dalla devastazione concettuale di questa società di mezzo con un like, con un tweet, con un poke, con una emoticon, sia una rivoluzione umanitaria epocale. Se poi la sua temerarietà si spinge oltre la sola interazione di consenso e si avventura nella giungla della concettualità espressa con trenini di parole semplici ed efficaci, il buonista si espone ad una esaltazione di coscienza che lo colloca di diritto sul piedistallo più alto occupato dagli eroi del nostro tempo, appena dopo Gandhi, Martin Luther King, JFK e Nelson Mandela.

Quello che fa del buonista un supereroe è la pubblica difesa del più debole, di colui che altrimenti da solo non avrebbe visibilità, una minoranza, appunto, che non ha armi telematiche per esplicare la sua presenza nel mondo. E quindi, ad esempio, blatera inviperito che è necessario togliere i crocifissi dalle aule per non offendere la sensibilità religiosa della cultura musulmana; batte i pugni atterito contro chi vuole censire i rom; si straccia le vesti davanti alla disumanità di chi chiude i porti alle ong; difende a spada tratta chi vìola le leggi nazionali ed europee se questi lo fa per un bene superiore, penalmente rilevante, ma moralmente buonista; si erge a giustizialista contro l’intero corpo delle forze dell’ordine quando due o tre di loro fanno malissimo il loro dovere; si scaglia inorridito contro gli stupratori seriali quasi avesse vissuto lui direttamente il misfatto.

E questa “hasta la victoria siempre” del buonista in tuta mimetica si spande e si confonde nella giungla telematica, sempre più incasinata, della banda larga. L’importante è esprimere un disagio salvifico a favore degli ultimi e che importa se prima è stato Charlie con tanto di bandiera francese come foto profilo; che importa se ha augurato la morte allo zingaro il giorno che, tornando dalle vacanze, ha trovato la sua casa svaligiata; che importa se ha gridato allo scandalo delle mafie che organizzano la nuova tratta degli schiavi facendola passare per migrazione; che importa se si è indignato per un governo che non rispetta le regole europee sul deficit, che ci sono e vanno rispettate; che importa se ha inneggiato ai poliziotti e carabinieri eroi quando, sprezzanti del pericolo, salvavano vite umane; che importa se ha vomitato le più vituperate parole verso chi vende il proprio corpo per avere vantaggi di carriera.

Il buonista vive un costante conflitto personale che gli provoca struggimenti intellettuali di devastante coscienziosità, soprattutto quando deve decidere se collocarsi da una parte o dall’altra a seconda dell’espressività più illuminante che riesca a convincere gli altri che lui è buono, che lui è nel giusto. E che importa se fuori dai gigabyte del suo Notebook c’è il disastro più totale di una società che avrebbe bisogno di più buon senso, anziché dei piagnistei superficiali di cyber-santi; che avrebbe bisogno di analisi dettagliate e approfondite dei fatti raccontati, più che l’amplificazione avvilente del “sentito dire”; che avrebbe bisogno di un maggior decisionismo oggettivo, che mistificante partigianeria politica.

Ma meno male che c’è, che esiste la sua sagoma di cartone dietro i pixel dei nostri monitor. Meno male che possiamo riconoscerne gli aspetti più banali e soppesarli un tanto al kilo per non abusare della mielosità del suo approccio. Meno male che ha un profilo, un volto, un nome che lo espone rigorosamente alle sue responsabilità. Meno male che è iscritto ai social i quali permettono di ricercare, a ritroso, le favole raccontate con un finale o con un altro a seconda dell’empatia comunicativa che il mondo richiedeva in quel momento.

Lasciamolo riposare nelle quiete dell’anima “di chi si sente a posto eticamente”, lasciamolo vivere nella “tranquillità di chi non può essere attaccato”, lasciamolo godere del suo “relax morale e esistenziale”, lasciamolo campare “comodo nel suo solito tran tran”. Non alteriamo il suo stato sociale, non critichiamo il suo operato, non facciamolo arrabbiare. Perché come diceva la buon anima di Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, “non c’è cattivo più cattivo, di un buono quando diventa cattivo“.

Gianni Ianni Palarchio (Blog)


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