Calabria bizantina, mica solo monaci


Rai storia dedica una trasmissione alla Calabria bizantina (VI-XI secolo dC); ottimi gli interventi di Cuteri e Petrone, con l’autorità del compianto Burgalella. È stato carente però, a mio parere, il senso storico dei fatti, e troppo si è parlato di conventi e di monaci, e pochissimo di tutto il resto. Ora scrivo come la penso io.

Nell’immaginario dei tardoilluministi occidentali, i Romei, o Bizantini, furono tutti brutti, malati, corrotti e dediti da mane a sera alle congiure di palazzo, e, la notte, ad innominabili depravazioni; e, come massimo sforzo culturale, a dissertare sul sesso degli angeli. Così, a chi lo prende sul serio, insegnò Voltaire. Poi uno legge un libro di storia qualsiasi, e scopre che dal 395 al 1453, per undici secoli, questi smidollati e guasti e deformi e mal gaudenti governarono la parte più ricca e civile del mondo, mentre l’impero di Carlo Magno era già bell’e finito il giorno dopo la morte di lui, e Napoleone, repubblica inclusa, durò a stento diciotto anni, e in senso stretto appena dieci. Se i “bizantinismi” producono tali effetti ben più saldi e forti del giacobinismo, ben vengano, e più ce n’è, meglio è!

In Calabria, dove non so quanti sono i credenti, ma certo sono tantissimi i clericali, il tempo dell’Impero Romano d’Oriente, dal 535 al 1060, sei secoli, è sempre e solo una cosa: eremiti e monaci, detti anche, e impropriamente, basiliani. Per carità, ci sono stati anche loro, e molti; e diamo qui l’elenco dei cenobi secondo padre Fiore: S. Maria in Carrà di Africo; S. Elia, S. Teodoro, SS. Trinità di Avena, S. Zaccaria, SS. Quaranta Martiri di Aieta; S. Pietro di Anoia; S. Lorenzo di Arena; S. Basilio, S. Giorgio di Badolato; S. Basilio di Bisignano; S. Giovanni Terestì Vecchio di Bivongi; S. Leo, S. Giorgio di Bova; S. Maria di Tridetti di Bovalino; S. Pancrazio di Briatico; S. Nicolo del Prato, S. Vito di Bruzzano; S. Andrea Mauronio, S. Angelo, S. Ciriaco di Buonvicino; S. Giovanni Castaneto, SS. Salvatore di Calanna; S. Giovanni Calibita di Caloveto; S. Angelino Militino di Campana; S. Ciriaco de Amusa di Castelvetere (oggi Caulonia); S. Fantino, femminile, di Castrovillari; S. Leonardo, S. Maria di Cinnapotama, S. Caterina in Rocca Falluca di Catanzaro; S. Gerusalemme di Catena; S. Andrea; S. Maria de Cosma, S. Maria dell’Armi, S. Nicola di Nuda, femminili, di Cerchiara; S. Filippo Argirò di Cinquefrondi; S. Giosafatte di Corigliano; S. Lorenzo, poi S. Angelo di Drapia; S. Nicola di Drosi; SS. Filippo e Giacomo di Feroleto; S. Cosma di Fiumara di Muro; S. Elia di Galatro; S. Antonio di Castello, S. Demetrio, S. Epifania, S. Filippo Argirò, S. Giorgio, S. Ieiunio, S. Nicola di Pietracappa, S. Venera, S. Anna, femminile di Gerace; S. Nicola di Vibisano di Gimigliano; S. Giovanni di Campolongo di Isola [C. R.]; S. Fantino, S. Giovanni di Cuzca di Laino; nell’attuale Lamezia T., S. Nicola di Gaggio di Acconia; S. Costantino, S. Elia di Nicastro; S. Eufemia, poi la grande abbazia benedettina; SS. Quaranta Martiri di Sambiase; Kyr Macaros, S. Maria dell’Armi, S. Maria delle Fonti di Lungro; S. Anargiro, maschile; S. Maria de Canna, S. Veneranda, femminili, di Maida; S. Nicodemo di Cellarana, S. Nicolò di Mammola; S. Pietro di Marcanite; S. Elia di Melicuccà; S. Maria, S. Nicolò di Molochio; S. Maria di Mopsi (oggi Polsi di San Luca); S. Nicola de Tripa di Mormanno; San Giovanni di Motta S. Giovanni; S. Giorgio di Pietracappa di Nadile di Careri; S. Teodoro di Nicotera; S. Mercurio di Orsomarso; Le Saline o Aulinas poi SS. Elia Nuovo e Filarete, S. Elia da Reggio, S. Luca, S. Mercurio, S. Michele Arcangelo di Palmi; S. Michele Arcangelo, S. Nicola de Tremulo, S. Stefano di Papasidero; S. Maria di Cardopiano di [Petilia] Policastro; S. Pancrazio, S. Onofrio del Chao di Pizzo; S. Pietro Spanò, S. Maria di Pizzoni; S. Barbara, S. Maria di Carbonara, S. Maria di Placet, S. Maria di Ruvo, S. Pietro di Polistena; S. Lorenzo, SS. Annunziata, S. Fantino, S. Lucia di Mindino, S. Maria di Terreti, S. Nicola di Calamizzi, S. Nicola di Gallico, maschili, S. Pietro di Arasì, SS. Quaranta Martiri, Gran Madre di Dio a Calamizzi, femminili di Reggio; S. Salvatore Calomeno di Sambatello; S. Anargiro, S. Maria di Rovito di Rosarno; S. Adriano, S. Biagio di Vaio, SS. Cosma e Damiano, S. Giovanni Battista, S. Giovanni Prodromo, S. Maria Nuova Odigitria del Patir, S. Menna di Goffone, S. Mercurio, S. Onofrio, S. Opolo di Rossano; S. Eustrazio, S. Maria di Trapezomata, maschili, S. Anastasia, femminile di S. Agata d’Aspromonte; SS. Salvatore S. Adriano, e NN. di S. Demetrio Corone; S. Pietro di S. Pietro a Maida; S. Lucia dei Taorminesi, S. Nicola di Donnoso, S. Nicola dei Siracusani di Scalea; S. Fantino di Scilla; S. Filareto, S. Giovanni di Lauro, S. Nicodemo di Seminara; S. Teodoro di Mirto di Siderno; S. Maria de Vetere, S. Maria della Roccella, , S. Senatore di Squillace; S. Martino di Squillace e Soverato; S. Gregorio Taumaturgo di Stalettì; Arsafia, SS. Apostoli, S. Giovanni Terestì Nuovo, S. Leonzio, S. Nicola di Camerota, S. Nicola di Prato, S. Pantaleone di Stilo; S. Fantino di oggi Taurianova; Peteano, S. Maria di Pesica, S. Nicolo di Iacciano di Taverna; S. Angelo di Tiriolo; S. Basilio Scamardì di Torre [Ruggero]; S. Angelo, S. Isidoro, S. Sergio di Tropea; S. Marina di Umbriatico; S. Angelo di Kampa, S. Giorgio di Valle Tuccia; S. Leo Luca di Vena di Bivona; S. Maria della Sana di Zagarise. Un elenco che certo non è esaustivo.
Un buon numero di cenobi, certo, e monaci non privi di santità e di cultura greca. Ma attorno a loro, e anche senza e contro di loro, la Calabria era popolata da gente che mangiava, beveva, dormiva e vestiva panni, e reggeva città, e combatteva, e vinceva, contro Saraceni e Longobardi e chiunque altro, e coltivava la terra e teneva bottega. E si faceva i fatti suoi privati!

Intanto, anche la fede non era affidata solo, e nemmeno soprattutto ai monaci. La Chiesa costantinopolitana, prima del 1054 non ancora dichiaratamente scismatica, ma già indipendente da Roma, amministrava fin dall’iconoclasmo e decreto di Leone Isaurico del 732 le Diocesi dei territori soggetti all’Impero: la grande Arcidiocesi Metropolitana di Reggio con le suffraganee Bova, Gerace, Squillace, Crotone, Vibona, Nicotera, Tropea e Amantea; la nuova Metropolia di S. Severina con le piccole Diocesi di Ginecocastro (Belcastro), Isola, Cerenzia, Strongoli, Cariati, S. Leo, Umbriatico; l’Arcidiocesi di Rossano.

I monaci erano, sotto l’aspetto sociale, una componente autoreferenziale e non scevra da elementi anarcoidi, appena obbedendo ciascun cenobio all’igumeno elettivo, al più ad un archimandrita di più cenobi; le Diocesi, al contrario, formavano una rigorosa gerarchia, che, dai vescovi e attraverso protopapi e papài, correva fino ai fedeli, parallela e concorde con quella dello Stato. Distinzione del resto puramente nominale, nel mondo bizantino, in cui Chiesa e Impero erano ugualmente manifestazione di Dio sulla terra, se ogni cosa “procede dal Padre”.

L’invasione dei Longobardi del 568, che con Autari era giunta fino allo Stretto, era stata respinta e arrestata lungo la linea del Crati, tra Rossano e Amantea. Dall’VIII secolo la Calabria è le retrovie della guerra contro gli Arabi intenti alla conquista della Sicilia. Gli “empi Agareni”, dal fatale 829, saccheggiano le coste, e ne volgono gli abitanti in disperata e abbietta fuga: era dai tempi di Annibale che non vi accadevano fatti di guerra, e mille anni di pace, certo non sono palestra di valore militare.
Nell’887-8, il generale Niceforo Foca riconquista Tropea, Amantea, S. Severina, dove, e forse anche a Squillace, si erano insediati emiri arabi; e dà una prima organizzazione a quella terra che già l’amministrazione e la burocrazia bizantine chiamano in parte o in tutto Calabria; e l’Impero si estenderà alla Langobardia Minor, la Puglia, e, più o meno effettivamente, sui principati longobardi di Benevento e Salerno. I nipoti dei miti fuggiaschi di due generazioni prima sono diventati, ammaestrati dalla sventura, a loro volta guerrieri, e partecipano alla difesa.

Niceforo II Foca, nipote del condottiero, è imperatore dal 961 al 969, e in questi brevi anni compie una rivoluzione sociale, esaltando la funzione dei piccoli proprietari contro i latifondisti. In Calabria ordina che “ascendant ad montes”, da intendere come l’organizzazione della difesa attraverso i kastellia, borghi fortificati e popolati da contadini soldati, tutti ben visibili l’uno dall’altro, e facilmente raggiungibili; e vi inviò anche colonie militari da tutte le stirpi dell’Impero, e ciascuna giunse portando con sé la lingua greca, la fede in Cristo e nell’Imperatore, e la venerazione di santi guerrieri: Agazio centurione, patrono di Squillace e della sua Diocesi; Sostene, patrono del paese omonimo; Teodoro, patrono di Satriano, e, in Oriente, patrono dell’esercito imperiale…
Tra i due Niceforo, il dominio imperiale in Italia Meridionale – quello su Ravenna, l’Esarcato e la Pentapoli è perso da tempo; Venezia e le città campane sono indipendenti; la Sardegna è dimenticata – viene organizzato attorno ad un catepano (“sovrapposto” all’Italia, “sottoposto” all’imperatore), che risiede a Bari, ed ha sotto di sé gli strateghi dei temi di Reggio, Tursi e della stessa Bari. Una ramificata, spesso eccessiva, burocrazia civile e militare regge i territori, e ne sono parte integrante i vescovi e il clero secolare.

Proprio l’estensione del dominio ne pone i germi della fine: infatti, la popolazione di lingua latina e obbedienza papale inglobata nell’Impero diviene prevalente su quella greca, mentre tutta l’italianità sembra rinascere e crescere. La grecità, di fatto ridotta alla Calabria a sud del Crati e alla Terra d’Otranto, comincia a venire sentita come straniera, estranea, ostile. Già l’imperatore carolingio Ludovico II (855 – 875) scende in Calabria; e in altre occasioni le città si rivolgono agli imperatori d’Occidente per ottenere protezione dagli Arabi. Il governo imperiale è efficiente, però costoso e necessitato a ricorrere al fisco e a prestazioni personali. Il popolo di Rossano bruciò le navi da guerra che il governo aveva imposto di varare.
È questo mutamento di cultura e civiltà la ragione profonda dell’accettazione della presenza normanna, nel seguente secolo XI. I cavalieri francesi, di lingua latina e fede cattolica, sono ormai italiani, anzi, giacché, dopo Civitate (1053), vassalli prediletti del papa, più italiani degli altri; e il loro compito, o, se si vuole, l’ideologia che si danno è la riconquista del Meridione contro i musulmani di Sicilia e questi scismatici Greci; e la proposizione e imposizione della pace a terre sempre dilaniate da conflitti che tutti sono capaci di iniziare e nessuno di vincere. Gli eserciti bizantini vengono sconfitti, senza che le genti si schierino a loro difesa. Anche le città che in qualche modo resistono – Reggio, Squillace – vengono presto a patti (1060). I vescovi greci, posti di fronte alla scelta, restano fedeli all’Impero e vengono sostituiti con dei latini.

Altra vicenda, quella dei monaci, che restano indifferenti alla caduta del potere politico costantinopolitano. Aveva indicato loro questa strada s. Nilo da Rossano, passando a Roma e legandosi agli Ottoni e alla Chiesa romana, dove ancora la sua fondazione di Grottaferrata è una sorta di capo del rito greco in Italia. Tra gli Occidentali s. Nilo fu oggetto di venerazione; ma Giovanni Filagato, arcivescovo di Piacenza e poi antipapa, subì un terribile destino ad opera di Ottone III.
Separate le sorti dall’Impero Orientale, le comunità monastiche vengono organizzate in una gerarchia che garantiva il controllo degli archimandriti di S. Elia di Carbone, S. Giovanni Teresti e SS. Salvatore di Messina sugli igumeni di Sicilia, Calabria e Basilicata: tre provincie monastiche, ma senza contiguità territoriale. La cultura “basiliana”, se non la lingua, sopravvivranno fino al XVIII secolo, protette dai Normanni, mal tollerate dagli Angioini, riportate in vita dal cardinale Sirleto.

Fu solo ad opera del dotto di Guardavalle che nacque un Ordine Basiliano inteso nel senso di una precisa gerarchia; e ancora ai primi del XVIII secolo c’era in Calabria qualche convento di rito e cultura greci. Non so se anche di lingua, e ne dubito.
Nel Regno Meridionale, la grecità restò, e un poco resta tuttora. Greci sono molti toponimi, e moltissimi nomi prediali. Infiniti calabresi e pugliesi, anche chi scrive, portano cognomi greci; almeno il 20% delle parole dialettali meridionali, e, in Calabria a sud dell’Istmo, tutta la sintassi, sono greche bizantine. Ancora fino a tre generazioni addietro parlavano grico alcune piccole comunità del Reggino e dell’Otrantino. Greca è la religiosità, con la venerazione di santi orientali: Agazio, Cosma e Damiano, Giorgio, Gregorio Taumaturgo, Nicola, Teodoro; della Madonna Basilissa e Odigitria; di Santa Sofia.
Possiamo solo congetturare quale sia stata la vita dei Greci in un Regno sempre più latino. Ci fu, in alcune aree, un lungo momento di bilinguismo, come vediamo in molti cognomi per così dire tradotti: Palaia e Vecchi, Calò e Bello, Condò e Longo… e venne un tempo in cui i nipoti non capirono più i nonni, e si perse anche la memoria del passato.

O questa rimase come un segreto, almeno dove delle famiglie o delle consorterie vollero difendere il passato, sostituendo lo Stato imperiale con i legami familiari e di autodifesa non solo culturale: e forse qui il luogo per rilevare che ‘Ndrangheta significa andragathia, valore guerriero.
La cultura letteraria bizantina in Italia fu prevalentemente teologica, agiografica, omiletica, cultuale, scientifica. Non mancarono intelletti di valore e fama: Enrico Aristippo, Barlaam e Leonzio, primi diffusori della grecità in Occidente; e quell’anonimo vescovo di Oppido che tradusse del testi greci per Roberto d’Angiò; e gli Otrantini. I primi umanisti, Petrarca e Boccaccio soprattutto, sperarono di trovare in Calabria tesori di grecità culturale; e qualcosa ottennero, sebbene gran parte dell’antichità fosse già perduta.
Dell’architettura e pittura bizantine restano mere reliquie, dopo secoli di trasformazioni, abbandoni, terremoti, infine il peggio, la privatizzazione giacobina, murattiana, piemontese. Quel poco che si può ammirare ancora consente di immaginare un mondo greco d’Italia splendido di colori e curioso di misteri tecnici sulla composizione di quelle vernici così indistruttibili. S. Giovanni Teresti Vecchio di Stilo (Bivongi); la Cattolica di Stilo; il Battistero – o chiesa? – di S. Severina; la Chiesa di Sotterra a Paola, sono abbastanza note. S. Maria di Tridetti, Bombile, Umbriatico, S. Fantino sono noti appena agli studiosi; gioielli come la chiesetta del Campo a S. Andrea A. Ionio sono quasi sconosciuti, e rari studiosi li visitano, e nessun turista. Colpa anche del pregiudizio antibizantino, che con queste righe forse abbiamo contribuito a confutare.

Sarebbe ora che la Calabria, persino la sua cultura ufficiale così radicata in un Settecento illuminista passato da tre secoli, e così all’oscuro che, dopo, ci sono stati romanticismo, positivismo, idealismo, futurismo, fascismo e antifascismo, e che tutte queste cose, ahimè, sono ormai remote; questa Calabria così scolasticamente antistoricista si decida a interrogarsi seriamente sulla sua vicenda storica, Bizantini compresi.

Ulderico Nisticò


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