Gioacchino, la cultura in Calabria e il nonno di Ecuba


Non lo avessi mai scritto, che il Centro di studi gioachimiti è bravissimo in filologia, però si ferma lì, e tutto resta nel suo chiuso! Qualcuno mi ha mangiato vivo, non evitando, da bravo calabrese, le offese personali. Già, i Calabresi ignorano l’arte della polemica o diatriba, conoscono solo ingiurie di bassissima lega. Ciò tuttavia mi obbliga spiegarmi.

Chi dice che in Calabria non c’è cultura, è il solito secchione calabrese libresco, anzi manco quello: dai tempi più antichi, la nostra terra ha dato i natali a infiniti dotti, eruditi, filosofi, filologi, teologi, matematici eccetera, solo che non lo sa nessuno, manco i vicini di casa. Manca infatti, tra l’altissima cultura iperspecialistica e l’ignoranza, quella cerniera che è la cultura media, divulgativa e divulgata; e che altrove ha dato vita a poesie e romanzi e testi vari che, presi in esame da critici enunctae naris non valgono tutti tantissimo, però tutti assieme hanno fatto una mentalità, una storia, una politica, e con essa l’arte e il senso del bello. Il nostro superdottogalattico è di quelli che, già ridevano i Greci, passa la vita a studiare come si chiamasse il nonno di Ecuba e quanti marinai aveva Ulisse; però, francamente, mostra di non aver capito niente dell’Iliade e dell’Odissea.

Mi spiego meglio. La Divina Commedia è un poema didascalico, cioè, in pratica, divulgativo; e per questo è stata scritta non nel latino dei monaci ma nel volgare delle persone un po’ istruite e anche non. Letto in volgare, pare contenere tantissime nozioni di storia, teologia, cosmografia, meteorologia, geografia, storia letteraria e dell’arte… una specie di enciclopedia popolare, diciamo. Se Dante avesse scritto le stesse cose in latino, i dottissimi medioevali lo avrebbero accolto con un sorriso di compatimento, come si fa con i dilettanti. Grandissimo, eterno poeta, certo: ma non c’era certo bisogno del V del Purgatorio per far sapere agli specialisti come si forma la pioggia; o del XXVIII dell’Inferno per un abborracciato riassunto di storia del Meridione.
Vero, ma è leggendo la Commedia che gli Italiani hanno imparato, e ricordano tuttora, Manfredi e Farinata eccetera, che, rimasti sui libri di scuola, sarebbero dimenticati una settimana dopo il trapasso. Ecco, spero di aver dato un esempio importante di cosa io intendo per cultura divulgata. Quella cultura divulgata che in Calabria non c’è; ma o è specializzatissima e isolatissima, o precipita nell’ignoranza più cupa, e, quel che peggio, ignoranza di tutto mista a valentissima preparazione professionale.

Sarei curioso di sapere quanti miei esimi colleghi di Lettere, tutti più bravi e certo più diligenti di me nel compilare il registro, hanno mai spiegato ai fanciulli che la suddetta Commedia ha un impianto rigorosamente gioachimita; o hanno mostrato loro il Liber figurarum. Mi sbaglierò, ma credo pochissimi, manco a Celico, dove il nostro nacque. Attenzione, non è mica la solita bufalosa vanagloria provincialotta: Gioacchino non è importante perché calabrese; fosse stato anche ecuadoregno, la Commedia non si capisce senza di lui.
Non so se sono stato chiaro. Ciò premesso, è ovvio che la filologia, intesa in senso largo, è preziosa e necessaria. Essa è, in senso stretto, la scienza che studia l’autenticità o meno di un testo, e mira a restituire se non il testo almeno l’archetipo. Ne studia la genesi e la trasmissione, e come sia stato recepito e letto e interpretato nei diversi ambienti. Proprio per questo la filologia è una scienza per specialisti; e per specialisti di un periodo, di un autore, di un testo, di un capitolo… Esempio: io credo di cavarmela piuttosto bene con un libro a stampa in greco o in latino; ma non oserei mai neanche sfiorare un manoscritto, e lascio il compito a chi è del mestiere; e che, appunto, mi deve fornire un bel testo a stampa, attendibile, e poi io me lo leggo. In foto, un modello di edizione critica dell’Iliade di Oxford, con sotto l’apparato critico. Il mio compito è leggere e tradurre il poema già edito, non altro. Non so se sono stato chiaro.

M’inchino perciò di fronte all’autorità dei filologi; ma mi farebbe piacere che la loro fatica divenisse un tantino più conosciuta dal popolo: ed è facile sia di più, perché in questo momento è conosciuta zero! Faccio un esempio che mi riguarda personalmente: il megaconvegno siderale tenuto in Vaticano sul Sirleto, che, lo dico per fede, sarà stato sicuramente di cosmica importanza e dottrina, ma di cui non ha mai sentito nulla nemmeno la guardia svizzera di turno alla porta! Dopo il 2014, la Calabria, che niente prima sapeva del Sirleto, continuò e continua a non saperne nulla.
Lo stesso per san Nilo, san Francesco di Paola, l’insurrezione del 1806 e Murat, Giglio, Telesio… e compagnia cantando. Su qualcuno di loro si tenne il solito superconvegno immane con i soliti professoroni che leggono 40 cartelle tutte con lo stesso tono basso e biascicato, e fuori dalla sala non uscì manco un pettegolezzo piccante.
Riassumendo: è di vitale rilevanza stabilire filologicamente se Gioacchino profetizzò o meno sventure a Guglielmo II; ma è anche perfettamente inutile, fin quando il 75% minimo dei laureati calabresi continuerà a ignorare non solo chi sia mai stato questo re Guglielmo, ma l’esistenza del Regno di cui fu re. Non so se sono stato chiaro.
Corollario: per sapere che Guglielmo II detto il Buono regnò dal 1166 al 1189, non serve un convegno supermegaenorme ogni lustro, basta un Bignami. Per il Regno, un poco di più, un libro serio.

Ulderico Nisticò


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