La Calabria sempre ultima


 Qualche mese fa ci hanno imbottiti di chiacchiere; ora l’ISTAT ci dice che siamo sotto la media nazionale di 13 punti: mica poco! Restiamo, caparbiamente, gli ultimi d’Italia e d’Europa. La colpa… e no, non cadiamo nella solita manfrina calabrese, che se diamo la colpa a qualcun altro (Garibaldi, i Borbone, i Romani, gli Spagnoli, la Ndrangheta, il Cucco, il Fato… ) poi ce ne andiamo a dormire tranquilli. La colpa è senza dubbio dei politici, ma i politici li eleggiamo noi.

 Noi, chi? Una Calabria che, negli anni 1970, scelse deliberatamente la strada della bidellizzazione, del posto fisso, delle invalidità, dei forestali, degli impiegati statali regionali provinciali comunali ospedalieri eccetera, dei professori; e abbandonò le campagne e le stalle e i boschi e le botteghe eccetera. Sembrava una furbata, e ora la paghiamo noi e i nostri figli, et nati natorum et qui nascentur ab illis. Quelli che non emigrano.

 I servizi? Sono i 42 ospedali, e la Calabria è quella che spende di più per mandare i malati a curarsi altrove. Le scuole? Ottime scuole… per gli anni 1980; obsolete, per il 2017.

 Il turismo? Ma sono 15 gg di chiasso ad agosto, e qualche sabato sera se non fa freddo. Una risorsa, il turismo, utilizzata al 20% delle potenzialità; e che non genera indotto. E già, l’altro 80 costerebbe lavoro tutto l’anno. Assenti tutte le forme di turismo che non siano sciacquarsi in mare.

 Classe dirigente politica e burocratica, così negativa che ormai mi sono seccato anche di ripeterlo; manco si offendono, e se li incontro mi offrono un caffè.

 Del resto, il problema di fondo della Calabria non è né la politica né i passacarte; è che manca del tutto ogni idea della Calabria; manca l’azione della cultura. Per cultura io non intendo aggobbiti eruditi che, dietro compenso, vengono al convegno e leggono 40 pagine tutte con lo stesso tono, e intanto il pubblico dorme o legge il giornale. Tanto meno, la cultura antimafia segue cena.

 Idea, serve, non luoghi comuni, o piagnistei o vanterie. Idea, significa:

  • Conoscenza diretta del territorio, diretta con gli occhi e non attraverso frettolose note di viaggiatori forestieri del XIX secolo;
  • Studio delle risorse reali del territorio;
  • Conoscenza della storia calabrese, in genere quasi assente o deformata da lacrimatoio generico e sbarchi di Ulisse e altre fandonie a ruota libera;
  • Ricognizione credibile dei dati: numero reale di abitanti e non somma di anagrafi comunali nominali; numero reale di abitanti di ogni singolo centro; classi di età; occupazione effettiva; turisti e loro permanenza e dove; produzioni e commercio…
  • Proposte con i piedi per terra, e non fantasie su Gioia Tauro o Isotta Fraschini, eccetera.

 Se volete una lezioncina di storia, eccola. La Calabria, chiamiamola così, fu quasi sempre, nei quattro millenni che conosciamo, una terra media, senza grandi momenti paragonabili a Firenze, Genova, Milano, Napoli, Pisa, Roma, Venezia… ma anche senza quel quadro di miseria di cui leggiamo. Un dato: alla metà del XVII secolo, la Calabria contava, al ribasso, 550.000 abitanti; ai primissimi del secolo seguente, prima dell’inizio del grande sviluppo industriale, tutto il Regno d’Inghilterra (Inghilterra, Galles, Irlanda), ne contava solo 4.500.000; e le Spagne erano in gran parte spopolate.

 Mai stata ricca e mai stata poverissima, la Calabria può tornare a condizione di onesta mediocrità; magari con qualche picco, ogni tanto, di filosofi e scienziati. Poeti no: ci manca l’ingenuità.

 In questo momento, inseguendo modelli altrui, è l’ultima d’Italia e d’Europa. Serve una classe culturale che dica la verità anche quando non è piacevole e non accarezza sogni di gloria e ricchezza; e che proponga ai Calabresi non vita comoda in cambio di scarsa prestazione d’opera, ma la dura legge del lavoro. Lavoro, nel senso di fatica.

Ulderico Nisticò


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