La Calabria ultima


 La Calabria, per l’esattezza, è la terzultima regione d’Europa: peggio stanno l’isola sperduta di Melilla e una terra desolata, mi pare, della Grecia; tutto il resto sta meglio di noi. Questi sono i dati ufficiali; ci soccorre l’economia in nero, a dire la verità, ma di questo ci dovremmo vergognare. E diciamo in nero!

 Com’è che la Calabria è messa così male? Beh, perché l’economia, a volerne dare la definizione più banale, è produrre qualcosa e consumarla e venderla; e invece la Calabria, delle tre cose, ne pratica solo una: il consumo; ma vende pochissimo e niente, e tanto meno produce. Perciò la sua economia è debolissima.

 C’erano due nuclei industriali a Vibo e Crotone, e sono spariti in cambio di fallimentari baracconi provinciali. Che io sappia, funziona qualcosa a Reggio. Qualche modesta attività locale vive di mercato interno, con qualche eccezione cui auguriamo ogni fortuna. Tutto il resto sono cimiteri come SIR o Saline che mai lavorarono un giorno; o fiumi di chiacchiere come l’Isotta Fraschini e Lamborghini non so quale macchina americana o trattori russi o le palline da tennis… Chiacchiere e soldi, presumo, senza la benché minima produzione di nulla.

 L’allevamento ovino, suino e bovino, un tempo importanti, sono quasi scomparsi. La pesca è modesta; e con essa la navigazione di cabotaggio.

 L’agricoltura vivacchia qui e lì, poco esportando, e molto aspettando sussidi. Il legno calabrese – ah, quante volte abbiamo sentito, in campagna elettorale, “la filiera del legno”! – non è più appetibile da decenni.

 Il turismo? Quello che in Calabria pomposamente si chiama turismo è in realtà solo un breve periodo di balneazione, cui si aggiunge, se le condizioni lo consentono, un ancor più breve tempo di sport invernali. Quasi assenti le forme di turismo culturale, congressuale, religioso, della terza età, agriturismo genuino…

 Insomma, cosa produce, la Calabria? Da dove dovrebbe trarre un’economia meritevole di tale nome?

 Dai servizi, ecco, da quei “servizi” che, distribuiti a piene mani ai tempi demosocialcomunisti anni 1970, diedero i “posti”; e che oggi non ci sono più, ma scuole chiuse per mancanza di ragazzi, e ospedali chiusi per mancanza di soldi ed eccesso di oziosi passacarte.  

 Per completare il fosco quadro, un’occhiata alla demografia a piramide rovesciata: tanti anziani e pochissimi bambini.

 Quanto alla Regione, il suo disastro è sempre lo stesso dal 1970, niente e nessuno esclusi.

 Che fare? Non ci servono piani straordinari e interventi e altri pannicelli caldi: qui è urgente una ripensamento radicale della vita sociale, quindi dell’economia. Servono agricoltura vera, allevamento vero, industria (del 2017, ovvio!) vera, turismo vero e serio e duraturo…

 So bene che è facile dirlo, e che per realizzare una tale rivoluzione occorre almeno una generazione. Intanto si dovrebbe iniziare con:

– Studio della Calabria reale, che può essere affidato solo a professionisti. Faccio l’esempio che mi riguarda: bisogna vietare per legge di parlare di Magna Grecia a chiunque non sia professionalmente grecista e latinista. Figuratevi chi parla di agricoltura e legno senza essere almeno agronomo!

– Proposte scientifiche di utilizzazione delle risorse reali e delle opportune modalità.

– Investimenti pubblici solo in attività produttive e che dimostrino di essere tali; e che s’impegnino a durare almeno dieci anni, se no pagano di tasca.

– Fine di ogni forma di assistenzialismo diretto e indiretto, con la sola eccezione di effettivi e conclamati disabili.

– Infine ma non fine: stroncatura attraverso il sarcasmo di ogni genere di piagnisteo letterario, canoro, oratorio, femminista eccetera. Tanto trattasi solo del napoletano “chiagn’e… ”, o, in soveratano puro, “pijji pisci e jestimi”.

Ulderico Nisticò


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