La giornata dei poveri


Domenica di interventi a favore dei poveri, voluta dal papa; e credo che nessuno si tiri indietro, oggi, per quanto è possibile. Ma è importante che l’iniziativa non finisca con un donativo, e faccia parlare seriamente del problema.
Intanto, le parole. Mutuando la precisione del latino, non dovremmo dire poveri (pauperes, cioè di modeste condizioni), ma indigenti (ìndigi, cioè mancanti di mezzi per vivere). I pauperes, se sono anche parchi e accorti e senza vizi, possono vivere; gli indigi, no. In questo caso, oggi, parliamo degli indigenti, non di quelli che magari vorrebbero o dovrebbero acquistare un bene e non hanno i soldi.
Vero che ci sono le povertà relative, ma non è di questo che si discute, in questa domenica. Ci sono milioni che patiscono la fame, e non in aree sventurate del Pianeta, ma nel ricchissimo Occidente. Ed è questo che io non capisco.

Non lo capisco da storico. Conoscendo storie di molti popoli, ho incontrato vari episodi di fame per cause naturali: le grandi pestilenze di Atene, del 1348, quella manzoniana; ere di desertificazione, come quella notissima del subcontinente indiano protostorica, quando il Paese dei sette fiumi divenne dei Cinque (Panjab), e gli altri due seccarono; lo spopolamento dell’Impero d’Occidente; la carestia irlandese del XIX secolo… Altri eventi, per ragioni umane, in particolare guerre civili o esterne.
Queste situazioni io riesco ad analizzarle: se non piove per un paio d’anni; o, al contrario, si scatenano diluvi o terremoti, è inevitabile che vengano meno le risorse alimentari.

Ma in un mondo che possiede un livello tecnologico ancora un secolo fa inimmaginabile, io che ci siano degli indigenti, e tanti indigenti, non capisco come possa avvenire. O, più esattamente, lo capisco benissimo, però è assurdo.
Lo capisco: la ricchezza (usiamo questa parola molto generica, per comodità) bisogna produrla, ma bisogna anche distribuirla. Attenti qui: è facile cavarsela con teorie utopistiche e di invidia sociale del tipo “se la Chiesa vendesse i suoi tesori… ”. Se la Chiesa vendesse i suoi tesori, l’unico risultato sarebbe una gigantesca svendita a due soldi, e la Pietà di Michelangelo o la nostra Pietà del Gagini finirebbero ai bordi della piscina del miliardario. Non è una battuta: avvenne quando, nell’Ottocento, misero all’asta i beni dei conventi e delle chiese, che costituirono latifondi improduttivi e crearono una classe di ignoranti parassiti. No, certe scorciatoie vanno bene solo per i demagoghi e gli applausi facili; e per i temi in classe di prof senza idee per la traccia.

Il problema è produrre la ricchezza, e far sì che questa si distribuisca da sola attraverso il lavoro. Produrre la ricchezza non è cosa che stia avvenendo come si deve: l’Occidente capitalistico commette periodicamente degli errori gravissimi, che lo conducono a crisi di sovrapproduzione; s’intende, sovrapproduzione di qualcosa, e sottoproduzione di qualcos’altro. Io ho in casa quattro televisori, e li uso quasi solo per vedere (svogliatamente) dei tg e delle trasmissioni di dinosauri, oppure canale 38 Giallo. Se anche fossi carico di soldi, non comprerei mai un quinto apparecchio inutile, dati i pessimi programmi. Decenni fa ho comprato un videoregistratore che divideva lo schermo in nove parti, però non divisi mai nulla, e furono soldi gettati al vento. Insomma, non si può continuare a produrre cose superflue e scapito di altre.

Non voglio dire che lo Stato debba dirigere la produzione: l’abbiamo già visto negli anni 1970-90, e fu un disastro e un immane incentivo alla corruzione pubblica e privata, soprattutto nel Sud. Voglio dire che ci vorrebbe un gran lavoro di filosofi e sociologi, i quali studino cosa serva alle comunità e cosa no o di meno, e indirizzi le imprese. Anche qualche consumismo infantile dovrebbe finire o placarsi. È dunque un fatto politico nel senso più nobile del termine.
La ricchezza, se è genuina e di sostanza, si distribuisce da sola. Un errore spaventoso fu ed è quello di “creare posti di lavoro”, che, per troppi zuzzurelloni, soprattutto nel Sud, si riduce a “creare posti”, dove posto non è sinonimo di lavoro, tutt’altro!

Tanto meno la ricchezza si produce, come vorrebbe esplicitamente Draghi, con l’inflazione, che crea solo illusione momentanea di ricchezza e corsa ai prezzi. Già Prodi ci ha regalato l’equazione lire 1.000 = euro 1,00 = lire 1.936,27! E i prezzi raddoppiarono in una notte. Oggi vorrebbero “inflare”, cioè gonfiare l’economia con euro inventati e stampati in tipografia come Ciampi? Ai tempi di Costantino, la falsa moneta era punita con il rogo!
Lo stesso per fandonie come Piccolo è bello, Orticelli sul balcone, Chilometro zero, Risorse (arcane) del Sud… e ogni altra illusione di pauperismo. Che la povertà sia bella lo dicono solo i ricchi!
Per produrre e commerciare, servono le persone, anche se robustamente sorrette dalle macchine. Se un’azienda prospera e cresce, assume; se lo Stato la mantiene per assumere, finisce come la FIAT, che produceva allegramente catorci; o Pomigliano d’Arco, che la sola cosa seria che produsse fu il bel film “Mi manda Picone”.
Le persone devono essere preparate con formazione adeguata, non con pezzi di carta. A proposito, va abolito il valore legale dei titoli di studio.

Deve sparire ogni assistenzialismo, con la sola eccezione di ammalati gravi. La soluzione della povertà è che i poveri smettano di essere poveri, e ciò può avvenire solo attraverso l’onesto e intelligente lavoro, adeguatamente retribuito.
Niente utopie: “Avrete sempre i poveri in mezzo a voi”, avverte realisticamente il S. Vangelo; o per circostanze sociali, o per circostanze personali, o, non raramente, per degrado morale. Serviranno interventi a loro favore, ma solo se sono poveri davvero e malati davvero. Per tradizione bimillenaria, i migliori giudici non sono i giudici o le commissioni mediche e tanto meno i politicanti, sono proprio i parroci, i quali sanno benissimo se uno è povero per disgrazia o perché si beve i soldi e si droga.
Niente utopie. Il Vangelo di Matteo di oggi è chiarissimo: chi ebbe cinque talenti, ne guadagnò altri cinque; chi ebbe un talento solo, ed era anche un vigliacco, lo nascose, e non guadagnò un soldo. Il padrone premiò quello bravo, e punì ferocemente l’inetto. Una grande lezione non solo di morale, ma di corretta economia.

Ulderico Nisticò


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