La non-urbanistica soveratese


 A margine di un convegno della III età e conferenza dell’arch. Riverso, occorrono alcune riflessioni sull’urbanistica; o, ahimè, piuttosto sulla non-urbanistica di Soverato.

 Facile spicciarsi sui centri vicini: le Marine sono sorte non come funghi, che almeno si mangiano e sono belli a vedersi, ma come la gramigna; cioè chi aveva un pezzo di terra ci ha costruito sopra. Il peggio, Montepaone e Davoli; ma anche gli altri non scherzano. Torniamo a Soverato.

 Fino agli anni 1960, Soverato era – leggete bene – quattro case e molti, moltissimi forni: e ci vorrebbe un articolo a parte per elencare tutte le attività produttive di artigianato, piccola industria, navigazione e pesca, commercio all’ingrosso e al minuto, e persino il turismo era, per quei tempi, di alto livello; mentre erano quasi assenti i passacarte. Ma le case, e relativi abitanti, erano scarsi, il che si può spiegare solo in termini di una precisa volontà di accorta sociologia.

 La topografia urbana iniziava al Castello (Palm beach, per intenderci), e finiva al Calvario; lontana la Stazione (fino al 1965, le stazioni).

 La devastazione urbana, e perciò sociologica, si deve alla demagogia demosocialcomunista degli anni 1970, supportata dagli interessi dei costruttori. Metà del territorio venne destinata ad “edilizia economica e popolare”, cioè casamenti residenziali notturni dove, per legge e per logica, sono vietate tutte le attività commerciali e comunque imprenditoriali. Perciò si può solo abitare, in verità solo dormire.  Basta un’occhiata: dalla piazza Maria Ausiliatrice allo stadio, è arduo trovare anche un modesto bar per un caffè.

 Il cattivo esempio è stato seguito nell’altro dormitorio di Mortara dal pubblico; e dal privato a via Trento e Trieste e Panoramica e Soverato Superiore.  La topografia delle attività produttive inizia al detto Castello, e finisce al Calvario e poco più: esattamente come negli anni 1970.

 Soverato del 2017 conta 8.000 abitanti, cioè 2.000 in meno di qualche anno fa. E qui occorre una riflessione più amara. E lasciatemelo dire, che un’analisi sociologica non si fa con i numeri.

 La nostra amata città annovera nel territorio il poco allegro primato di abitanti anziani, i cui figli e i nipoti – ammesso che ne siano nati – vivono molto lontano; oppure a Laganosa, Davoli, Montepaone. Le moltissime abitazioni soveratesi degli anni 1970 sono state pensate per famiglie di almeno cinque o sei componenti; e oggi le occupano due coniugi quando non qualche persona sola. Il vecchio centro della Marina – da via Olimpia a via Marina, si è svuotato; le abitazioni hanno perso sensibilmente valore monetario; gli esercizi commerciali sopravvivono, quando non si legge sulle saracinesche un FITTASI il cui colore sbiadito denunzia la lunga inutile permanenza; lo stesso per molti appartamenti.

 Non so se ci sarà mai una soluzione. So per certo che la colpa è di chi non ebbe un’idea dell’urbanistica, e lasciò fare a chiunque il comodo suo. E chi fu questo chiunque? Per il 30%, l’interesse privato; per il 70%, un’ondata di demagogia dei partiti dell’epoca, quindi del pubblico, se due terzi dell’area urbanizzata sono un enorme tranquillo dormitorio.

Ulderico Nisticò

 


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