L’altra notte ha tremato Google Maps


Il flusso di coscienza, l’impossibilità dell’oblio e la rielaborazione del tempo

Il terremoto che la notte del 24 Agosto 2016 ha colpito il Centro Italia diventa storia, tra le pagine di un libro. Michela Monferrini ripropone la tragedia al lettore utilizzando l’espediente di un lungo viaggio che si compie attraverso i meandri della mente. Sulla pagina il tempo cronologico si dissolve per divenire tempo dell’anima. L’orologio perde la tipica forma circolare per assumere quella della G di Google Maps: il giovane Giordano e la sua nonna prendono posto sul divano per iniziare a viaggiare dentro il sito web.

Il discorso narrativo inizia in maniera incompleta. Già il titolo di ogni capitolo viene lasciato a metà, con un avverbio di tempo o di luogo in posizione incipitaria, privo di soggetto e che procede per associazioni libere. Un pensiero confuso del protagonista, capitato quasiper caso all’inizio della pagina. Non esiste un principio da cui si generano i fatti narrati. Sarà l’intera narrazione un lungo e profondo monologo interiore che colloca la penna di Monferrini dentro gli occhi del protagonista e dovunque essi si posino nell’arco della giornata, proprio lì andrà a finire lo sguardo del lettore. Così come Giordano incontra i personaggi che prendono parte alla sua quotidianità, allo stesso modo li incontra il lettore.

Nessuna descrizione intercorre tra il personaggio e la lettura. Chiunque arrivi sulla pagina entra a gamba tesa, sorprendendo chi legge. Parola dopo parola si scoprirà qualche elemento in più da aggiungere al puzzle che compone il prospetto identitario del personaggio. Tutto è reso attraverso il punto di vista del protagonista che riporta nel testo ciò che ascolta. E così come le voci dei personaggi spostano Giordano dalla zona-di-coscienza verso la zona-di-realtà, allo stesso modo il lettore viene sballottato da una punto all’altro della narrazione. La scrittura scuote la pagina come il terremoto scuote la terra. Le frasi sono brevi. A raffica appaiono i nomi delle vittime, spezzando il ritmo della narrazione. Il periodo finisce per ridursi al solo nome. La lettura diventa un singhiozzare. Quasi a riproporre il pianto che ha accompagnato la tragedia. E questo succede di capitolo in capitolo, di pagina in pagina, fino alla conclusione. Tutto si riduce ad una scossa. Nel descrivere il momento che precede il terremoto -una tranquilla notte di fine Agosto- la parola “perché” viene lanciata sulla pagina con effetto boomerang. Va e torna, come i sussulti continui della terra. Come la rabbia di chi è costretto a tremare assieme a lei. E sempre nella mente del protagonista, il rumore del terremoto si trasforma nella canzone di Gino Paoli “Il cielo in una stanza”. Qualche frase sulle scosse di terremoto e subito qualche frase della canzone.

Tutto oscilla, come la terra. Monferrini porta nel testo il flusso di coscienza.
L’autrice lascia al lettore una speranza, la testimonianza che la scrittura annulla l’oblio. Ogni cosa vince sul Tempo solo se scritta. Quei luoghi ormai distrutti dal terremoto, continuano ad esistere perché scritti sulla pagina. Amatrice esiste ancora perché sul web sono descritte le sue viuzze, i suoi ristoranti, le sue persone. La stessa bisnonna di Giordano esiste ancora perché ha scritto alcuni fogliritrovati in fondo ad un cassetto, legati tra loro con del filo di cotone, sui quali ha lasciato delle ricette di cucina. La scrittura inganna il tempo, lo “spezza” alla maniera del carpe diem catulliano.
Nonostante la tragedia della morte e il dramma della distruzione assoluta dei luoghi, se si diviene capaci di frantumare il tempo come il terremoto ha frantumato la terra, sarà più facile assaporare ogni istante dell’esistenza. Monferrini affida un ruolo al suo protagonista, prendere il tempo anche quando il tempo non c’è. Lo stesso finale risulta essere una rielaborazione cronologica. È un velocissimo rewind.

Floriana Ciccaglioni (aspirante insegnante)


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