Le terre dello Stato ai contadini


Lo Stato vende o dona, non so, terre a chi le voglia coltivare. Ottima idea, questo ritorno all’agricoltura, almeno nelle speranze. Ottima idea sul piano morale (altro che “generazione Bataclan” e concezione della vita fondata sul tricheballacche in finto inglese!), ma bisogna vedere se e come lo possa diventare anche sul piano economico.

L’agricoltura, infatti, non è una poesia, è un’attività produttiva: e se produce, bene; se no, la si abbandona. Una delle tante colpe della scuola è aver spacciato l’idea che Virgilio coltivasse un “campicello” (in un’operetta a lui attribuita, niente di meno che “agellulus”, ovvero campicellino!), ma non è vero un accidenti: nelle Georgiche, poema didascalico sull’agricoltura, egli canta un “praedium” con cereali, foraggio, animali, alberi, api e tanta gente, quindi decine e decine, se non centinaia di ettari. Con il campicello, si fa solo ginnastica, come vedete nella foto. A proposito, Virgilio non coltivava.

Le operazioni di distribuzione di terre tot ciascuno sono finora tutte fallite: andate nel Marchesato, e costatare l’abbandono, quando non la trasformazione abusiva dei campi in case abusive e abusivi allacci. La terra va assegnata a chi seriamente s’impegni a lavorarla, e se non lo fa, gliela si tolga.
E va assegnata secondo scienza, e con unità agrarie minime, cioè: per le rose anche 500 mtq; per l’olio e il grano, decine e centinaia di ettari.
Corollario: i contributi pubblici dovranno essere concessi solo a chi s’impegni a seguire delle direttive di seria agronomia. Ovvero, se un terreno è vocato a patate, patate con contributi; se in un terreno vocato a patate io voglio coltivare orchidee, peggio per me, e non becco un euro.
Ma non ci sono solo le terre dello Stato, in Calabria; anzi, la condizione di abbandono riguarda soprattutto la proprietà privata, come ben vede chiunque ha a che fare con la campagna. Migliaia di particelle catastali agrarie sono di fatto inselvatichite, e i proprietari nominali sono morti o stanno all’estero. Così la terra non produce, ed è causa di dissesto e di incendi.
Serve un’operazione di “esproprio proprietario”: e sì, la terra abbandonata dev’essere messa a disposizione di chi la coltivi. Ma la proprietà privata… e no, viene prima di tutto l’interesse nazionale e sociale, che un individuale diritto…
…a parte che, storicamente, di diritto ce n’è ben poco.

Comprare le terre incolte, è vana speranza: tutti quelli che le ne ignorano anche l’esistenza, s’inventerebbero che è “la cara proprietà della cara memoria del nonno”, e chiederebbero milioni per ogni calanco e ogni albero bruciato. Vero che esiste l’usucapione, ma è un meccanismo lento e complicato. In entrambi i casi, i costi sarebbero enormi.
Servono delle belle finzioni giuridiche, del tipo:

– comodato d‘uso decennale, ventennale;
– fitto simbolico a centesimi 01;
– enfiteusi..

Non c’è niente da inventare, sono figure giuridiche esistenti. Bisogna aggiungere solo che divengano obbligatorie. Se io voglio comprare… attenti, non scherzo, la particella catastale contigua alla mia, di mtq 190 (non scherzo! Centonovanta) con sei proprietari accertati, faccio così: accendo un libretto postale di euro 200 (ed è ssalissimo), poi affiggo all’albo pretorio un avviso, e se entro cinque anni non si fa vivo nessuno, mi ripiglio i soldi; ma la terra, la uso subito.
Così può rifiorire l’agricoltura, e si salvaguarda il territorio.

Ulderico Nisticò


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