Tiriolo e storia dei Baccanali


Tiriolo Premetto, e con la massima sincerità e senza alcuna riserva, che hanno fatto benissimo, a Tiriolo, celebrando i Baccanali. Sempre meglio di teorie tenute con gli spilli sullo sbarco di Ulisse in montagna; o, in versione soveratese, cantanti e panini in quasi inglese.

 Ottimo, però, e dichiaro e ripeto che le attività culturali sono attrattiva turistica, ed è un altro buon motivo per farne.

 Detto questo come curioso dei fatti sociali, qui devo tornare in servizio come storico, e ammannirvi alcune precisazioni a scanso di equivoci.

 C’è un equivoco che circola da molto tempo non a Tiriolo ma in ambienti accademici ideologizzati, ed è che il senato romano abbia vietato i Baccanali nel Meridione come se volesse compiere un’operazione di bieco colonialismo culturale, e invece i riti dionisiaci fosse una protesta sociale. Panzane di marxisti della domenica. E giù tutto il ciarpame del luteranesimo (loss von Rom: via da Roma) e la favola che i Romani abbiano distrutto la Magna Grecia, che invece si era distrutta da sola almeno un secolo prima del loro arrivo a forza di scannarsi e distruggere città.

 I fatti, raccontati con ricchezza di particolari da Livio, non si svolgono a Tiriolo o a Siracusa o a Reggio, ma a Roma, più esattamente in un boschetto, dove un bel po’ di nobili ambosessi eccetera s’incontravano di notte non proprio per discutere pacatamente di filosofia. Il tutto dopo un’inchiesta consolare scatenata dalla scoperta che una tenera mammina voleva spedire all’Aldilà il figlioletto per mangiarsi l’eredità assieme al drudo. A Roma, ripeto, non nel Meridione; “a Roma, dove si raccoglie tutto ciò che di peggio c’è nell’Impero”, commenterà, ad altro proposito, Tacito.

 Arrestati gli zuzzurelloni, il console riunì ad horas il senato, e propose un decreto, che, per farla breve, qui vi traduco dal latino arcaico. Se qualche specialista ne vuole sapere di più, ho pubblicato testo, adattamento in latino classico e note in Cronache antiche di Tiriolo, estratto da Vivarium Scyllacense, 1995. Leggete.

 Ecco il senatusconsultum de Bacchanalibus. Siamo nell’anno 186 a. C.

 “I consoli Quinto Marcio figlio di Lucio e Spurio Postumio figlio di Spurio interpellarono il senato le None di Ottobre nel tempio di Bellona. Furono assistenti alla compilazione Marco Claudio figlio di Marco e Lucio Valerio figlio di Publio e Quinto Minucio figlio di Caio.

 A proposito dei Baccanali dei federati, [i consoli] hanno proposto che si decretasse così: nessuno celebri il Baccanale; e se ci sia chi affermi aver obbligo religioso di conservare un Baccanale, si presentino in Roma al pretore urbano, e dopo che sia stata ascoltata la loro dichiarazione, decida il nostro senato purché non siano presenti meno di cento senatori quando la questione sarà trattata. Non si unisca alle Baccanti nessun cittadino romano o di diritto latino o alleato, se non si siano presentati al pretore urbano, ed egli lo abbia autorizzato a seguito di una sentenza del senato purché non siano presenti meno di cento senatori quando la questione sarà trattata. [I senatori] hanno approvato. [I consoli hanno proposto che si decretasse così:] che nessun uomo funga da sacerdote; né uomo né donna funga da maestro; né si tenga denaro in comune; né si tollerino che uomo o donna ricoprano magistrature cariche o funzioni di cariche; né in seguito si uniscano con giuramento o voto o patto o promessa né si scambino reciproco impegno. Nessuno compia cerimonie sacre in segreto né cerimonie in pubblico né in privato né fuori della città, se non si presentino al pretore urbano, ed egli lo abbia autorizzato a seguito di una sentenza del senato purché non siano presenti meno di cento senatori quando la questione sarà trattata. [I senatori] hanno approvato. Nessuno compia cerimonie sacre in più di cinque persone in tutto, uomini e donne, e non v’intervengano più di due uomini e più di tre donne, se non per sentenza del pretore urbano e del senato, come di sopra è scritto.

 [I consoli ordinano] che pubblichiate queste cose nell’assemblea per non meno di tre giorni nundinali, e perché siate a conoscenza del decreto del senato, la sentenza è stata di tal tenore: se qualcuno agirà in difformità di quanto è sopra scritto, [i senatori] hanno decretato la pena di morte; e il senato ha ritenuto giusto che incideste ciò in una tavola di bronzo, e ordiniate che sia affissa dove più facilmente può venire conosciuta, e che se ci sono altari baccanali facciate che siano rimossi, eccetto qualche rito sacro come sopra è scritto, entro dieci giorni da quanto vi saranno state consegnate le tavolette. In territorio teurano”.

  Il severissimo decreto viene dunque emanato da Roma ed ha efficacia in tutta Italia, sia territorio romano sia dei federati (qui c’è un dubbio sul senso di “foederatei”, ma io credo siano gli alleati “iniquo iure”): l’Italia dell’epoca andava dallo Stretto al Rubicone. Tale era l’allarme sociale e politico scatenato dalla diffusione dei culti bacchici. Qui dobbiamo chiederci se i simpaticoni dionisiaci, signore e signori, andassero avanti a tranquillo vino oppure, come credo, a robuste dosi di stupefacenti e allucinogeni. Abbiamo diversi indizi, e basta per tutti il mito di Penteo messo in scena da Euripide.

 Chiarito dunque che il problema non ha niente a che vedere con il Meridione e non reprime insurrezioni politiche ma la corruzione ormai endemica, cosa c’entra Tiriolo? C’entra, perché Livio, che pure narra la vicenda, riassume soltanto il decreto, mentre l’unica copia integrale, in una “tabola” di bronzo, venne alla luce nel 1640 (secondo la mia Cronaca, 1638) durante dei lavori nel palazzo del principe Cicala proprio a Tiriolo. Un pronipote donò il prezioso cimelio all’imperatore Carlo d’Asburgo, dal 1708 al ’34 anche re di Napoli; e si trova a Vienna. Con la cura che teniamo in Calabria delle antichità, o per colpa o per terremoti e alluvioni, fu una fortuna. A Tiriolo si mostra una perfetta riproduzione.

 La tavoletta dà l’impressione di essere stata “stampata”, cioè fusa da una matrice e inviata in tutta Italia. Si aggiunge, con caratteri diversi, “in agro Teurano”, e qui si apre un discorso sul nome dell’antica Tiriolo, e anche sulle “Nundinae” e la pubblicità della legge.

 Ma non possiamo dire tutto, e nemmeno vogliamo. Chi ha curiosità, chieda.

Ulderico Nisticò


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