Un ponte da tollerare con ipocrisia


ponte_stretto_messinaNon c’è niente di così vero in politica del contrario di quanto i suoi attori affermano nei vari palcoscenici. L’ultima “uscita” di Renzi, dichiaratosi favorevole alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina (dopo che ne aveva sempre detto peste e corna), non fa che confermare quanto detto sopra: nel nostro paese democratico e liberale, è possibile tutto ed il suo contrario. Siamo “moderni” e senza tabù di sorta ma, soprattutto, siamo tolleranti. Ed allora? La tolleranza, in estrema analisi, non è altro che ipocrisia, ossia quanto comunemente è chiamato “politicamente corretto”. Ma è bene che sia così e sarebbero davvero guai grossi per noi se non potessimo simulare. Immaginate cosa accadrebbe se tutti noi, politici ed amministratori per primi, fossimo sinceri e coerenti, onesti e trasparenti come “un libro aperto”, se fossimo costretti a dire sempre e comunque la verità in faccia alla gente, pane al pane e vino al vino. Disagio, rancori, inimicizie, sarebbero all’ordine del giorno. Credete che esagero se affermo che la verità ad ogni costo toglierebbe anche il saluto e spianerebbe la strada ad odi mortali tra amici e parenti compresi? L’ipocrisia e la doppiezza oggigiorno sono una dote importante per tutti, anche in famiglia; per politici ed amministratori, anzi, sono una “condicio sine qua non”: assolutamente indispensabile. La verità “controllata” è una forma mentis per una coesistenza pacifica, per una convivenza civile e democratica. Come estrema ratio, possiamo affermare che l’ipocrisia è sinonimo di democrazia. Nel Paese in cui un “dottor” o un “bell’applauso” non si nega a nessuno, dove politici, amministratori, società civile, recitano a soggetto la commedia dell’ipocrisia, è diventato normale considerare la vita un’immensa scena in cui tutti interpretano una “parte” e non c’è da meravigliarsi di nulla. Né deve più sorprendere che un politico cambi la casacca nera per la rossa, appena s’accorge che l’osso avuto è stato già spolpato e non ha più nulla da guadagnarci, né che quello con la casacca rossa si fa in quattro per assecondare i piani di quello con la casacca nera: in un modo o nell’altro, presto o tardi, avrà avuto o spera di avere un “prodest”! Secondo Montanelli, “l’ipocrisia fa parte della componente genetica di una nazione e si pone sempre in relazione con ambienti e sfondi, climi e appartenenze, culture e famiglie che sembrano fatti apposta per proteggerla, per renderla inestricabilmente collegata con un elemento di sottomissione convenzionale”. D’altronde, se tutti sono d’accordo che i tempi dell’ideologia sono finiti per lasciare spazio ed ampia possibilità a comportamenti di programma e al relativismo di cassetta e mangereccio, non vedo perché si gridi al tradimento quando qualcuno ritiene d’indossare abiti più consoni alla nuova realtà o di sedere a fianco degli avversari: avrà pensato al bene comune, agli interessi della cittadinanza. E’ vero che, un tempo, certi comportamenti non sarebbero stati tollerati e sarebbe scattata subito l’espulsione dal partito. Ma un tempo il relativismo non era apprezzato; si viveva spesso d’ideali, e a volte si moriva anche per essi. Oggi la tolleranza è diventata sinonimo di relativismo e nichilismo; in suo nome si è perso il concetto di fedeltà alla famiglia, alla religione, alla nazione. Si cerca di vivere per avere sempre di più, senza preoccuparsi del dopo, del domani, quando si uscirà dall’agone politico e si dovrebbero fare i conti con la gente che ti aveva votato e sostenuto. Il filosofo Platone, in verità, dissentiva moltissimo dalla menzogna, come si legge nella “Repubblica”, libro sesto, dove parla della differenza tra chi è filosofo e chi non lo è. Per l’antico filosofo, la natura stessa dell’uomo saggio ha nel Dna l’odio per la menzogna e l’amore per la verità sempre e comunque. Per la filosofia greca, infatti, la vita è priva di senso e può offrire soltanto soddisfazioni caduche e di poco conto, non profonde e durature, se non è alla fine sottoposta alla “dokimasia”, ad un esame. Questo “esame”, nell’Atene dell’epoca, consisteva in una procedura davvero democratica (ma impensabile ai nostri giorni) in base alla quale ogni uomo politico, magistrato o funzionario, al termine del suo mandato, doveva pubblicamente dar ragione della propria condotta. Doveva, insomma, informare compiutamente la popolazione che aveva amministrato del suo operato, e con ciò mostrare se era degno di lode o di biasimo. Se, ai nostri giorni, politici ed amministratori si dovessero sottoporre a tale esame, pochi di loro – forse nessuno- sarebbero “promossi”. Una vita non “esaminata” non ha valore oggettivo, è un’esistenza da sonnambuli: “Una vita –diceva Schopenhauer- vissuta ad interim; una vita per cui si meraviglieranno di aver lasciato passare senza considerarlo e senza goderlo, proprio ciò che è stato la loro vita, e proprio quello nell’attesa del quale hanno vissuto”.

Adriano V. Pirillo


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