A Reggio, la microcriminalità


 Fino a qualche anno fa, Reggio C. mostrava una curiosa situazione sociologica: alcuni quartieri periferici poco frequentabili, e un centro salotto, dove signore ingioiellate, e con pelliccia anche ad agosto, potevano impunemente passeggiare con la borsetta aperta. Curioso, e anche non del tutto chiaro: ma era così. Oggi le cronache mostrano una palese degenerazione anche delle zone prima sicure, e un dilagare della microcriminalità, con rapine e con atti di vandalismo.

 Tutto questo non ha niente a che vedere con mafia, ‘ndrangheta e organizzazioni varie, e quindi nemmeno con l’antimafia sia dilettante sia di professione; anzi autorizza nelle menti più maligne (tra cui chi scrive) a immaginare una qualche crisi anche nel controllo del territorio da parte della criminalità organizzata. Il microcriminale infatti non è un affiliato o uno che ha pronunziato giuramenti sui Tre Cavalieri Spagnoli e con il sangue e con tutto l’armamentario da film e da convegni segue cena. È un generico disperato, per cui, se il colpo non riesce, andare in galera è un affare; se riesce, tira avanti qualche altro mese. Attenti: il disperato è pericolosissimo proprio per la sua disperazione e indifferenza anche alla propsia vita.

 Poste queste premesse, è sbagliato applicare alla microcriminalità analisi e soluzioni da crimine organizzato, che, purtroppo, è di ben altra efficienza delinquenziale; e non si alimenta di piccole rapine e borseggi e saccheggi notturni, bensì di enormi giri di soldi che, dall’origine lestofantesca, vengono ripuliti in eleganti banche con direzione nella città X e sportello in quella Y a diecimila chilometri… anzi, tutto on-line. Il tagliaborse non fa parte di questo meccanismo; e un emarginato… eccetera.

 Ed è con questa bella teoria che la microcriminalità è stata lasciata crescere; con l’avere un occhio di riguardo per il poveraccio, e andare in cerca del Grande, Grandissimo Vecchio e dei suoi legami con la sedicente Società Civile. Ed è colpa dei giornali e tv, che fanno eco a certe cose e tacciono di altre. E mentre s’insegue – anche opportunamente – la mafia mondiale, ci si scorda che per la gente comune, cioè il 90%, me incluso, il pericolo non è se la ‘ndrangheta ricicla o meno miliardi in paradisi fiscali spacciati per Stati, ma se a un lavoratore rubano la macchina, se un esercizio commerciale causano un danno e una rapina. E chi ha subito furto e devastazione, non può aspettare l’esito di immani inchieste eccetera, ma vorrebbe poter faticare in pace di giorno e star tranquillo di notte.

 E nemmeno importa se il microcriminale verrà arrestato e, dopo qualche qualche qualche tempo, persino condannato ad intasare celle già sovraffollate; alla gente interessa che venga fermato prima di delinquere.

 Serve dunque un controllo capillare del territorio. Come, se la deve vedere non la Giustizia, che interverrebbe, giustamente, solo a reato commesso; ma il Ministero degli Interni, il cui compito è impedire il reato. Come deve fare, beh, a ciascuno il suo mestiere: però, meno carabinieri e agenti in ufficio, e anche meno scorte decorative con sirena e sgommata, e più prevenzione, e far sentire il fiato sul collo. E siccome siamo nel 2022 quasi 23, più telecamere e altri sistemi diabolici.

 Si richiedono anche interventi politici e sociologici per ridurre al minimo i potenziali microcriminali attraverso una politica dell’occupazione. Ma questo, pur importante, è un altro discorso.

Ulderico Nisticò