Chissà quanti della mia età ricordano il Festival della canzone napoletana? Ebbe vita e successo finché, nel 1971 (fonte Wikipedia: spero sia attendibile) iniziò la solita storia di presunti imbrogli ed effettive denunzie, con intervento della magistratura, blocco del tutto, e addio Festival. Sanremo celebra 73 anni ininterrotti di buona organizzazione, con le immaginabili ricadute positive in termine di immagini e turismo e lavoro e vil denaro che circola a fiumi e fiori.
Ora qualche pinoaprilato griderà che la colpa è di Garibaldi; qualche secchione di professorone universitario scopiazzone dei protestanti Tedeschi dirà che è colpa dei Romani “che distrussero la Magna Grecia”, quando è tutto il contrario, e i Quiriti vennero proprio a raccogliere i cocci delle continue guerre tra Greci e annientamento di città… Insomma, anche in questo caso, la colpa è solo nostra, tutta meridionale.
Detto questo, mi chiedo che fine abbia fatto non il Festival della canzone napoletana (vedi sopra), la proprio la canzone napoletana, la quale, secondo me, semplicemente non esiste più. Per secoli, a Napoli, canzone significò quello che significava nella tradizione italiana: gli autori dei testi erano poeti; i musicisti erano artisti di altissimo livello e radicatissima tradizione; gli esecutori erano cantanti – cioè soprani tenori baritoni… – e non improvvisati canzonettisti. Attestata almeno nel XVI secolo, la canzone napoletana attraversò tutte le vicende storiche, per trionfare tra la seconda metà del XIX secolo e la prima del XX: “O sole mio” è del 1899.
“Tutt’e parole, so’ doce o so’ amare, so’ sempre parole d’ammore”. L’amore, in ogni sua sensazione e manifestazione e contraddizione, è il tema della genuina canzone napoletana; non senza diciamo così allusioni. Amore che oggi a qualche anima bella parrebbe politicamente scorretto: ma lo è ogni vera poesia.
Poi a Napoli arrivarono gli intellettuali arcigni e pesanti e salvatori della storia umana e “fotuttio”, e alla canzone napoletana venne affidato il compito di predicare non meglio definiti scopi sociali e a scopo elettorale, per altro con precario o scarso successo alle urne. L’amore sparì, e con esso la poesia, sostituiti con linguaggio da volantini. La contraddizione, che della poesia è il sale, si annacquò perché tutti la dovevano pensare allo stesso modo, piangendo sul presente e immaginando un ricchissimo futuro. Parole e musica, in netta decadenza. Peggio, l’uso di un dialetto incomprensibile dei bassi, in luogo del dialetto napoletano illustre degli antichi testi, vero linguaggio universale della musica.
Non so se si può fare qualcosa, e chi possa e voglia. So che ha successo Sanremo, e, detto in generale, con canzonette non certo eccelse e dai testi banali, e musica modestissima ed esecuzioni spesso vicine alla prosa discorsiva perché l’ugola non regge; e che quasi mai diventano motivetti popolari: ma la spettacolarizzazione è tale da imporsi nel mondo. A Napoli si sta perdendo una storia di mezzo millennio.
Ulderico Nisticò