Cognome di mamma? Niente di nuovo


  È stato sentenziato che i bimbi italiani possono portare il cognome di mamma invece di quello di papà. Prima o poi ci si doveva arrivare, poste le premesse dell’uguaglianza, e del resto, se facciamo una carrellata nella storia, non è nemmeno una novità.

 Prendiamo, per esempio, le monarchie in cui da sempre è prevista l’ereditarietà femminile del trono. La casata regnante in Gran Bretagna dal 1711 è quella dei duchi tedeschi di Hannover, maschi fino al 1837, quando ereditò Vittoria, la quale sposò sì un Sassonia Coburgo, ma i suoi discendenti continuarono a chiamarsi Hannover, e, dopo il 1917, Windsor; idem per Elisabetta II, il cui figlio ed erede (se non faranno la repubblica alla morte di lei, cosa che mi parrebbe più opportuna!) resta Windsor. Così per le casate di Olanda, Danimarca, Svezia e Norvegia, se a regnare è una donna che, ai fini privati, pigli marito.

 In Spagna, è costume aristocratico, poi diffuso, assumere i cognomi paterno e materno, con o senza “y”: Felice Lopez [y] Diaz… Di solito resta quello paterno, ma i più pignoli e prosopopaici li trasmettono entrambi assieme ai nuovi, donde chilometriche titolature. Negli Stati Uniti si usa il cognome paterno, ma spesso preceduto da quello materno: John Withe Smith, in genere scritto John W. Smith…

 Il sistema onomastico è del resto assai vario nei tempi e nei luoghi. I Greci non usavano cognome, bensì patronimici, del genere Pericle [figlio] di Santippo. Così molti altri popoli: gli Ebrei (bar Jona), gli Arabi (ben Jussuf), gli Irlandesi (O Hara), gli Scozzesi (Mac Artur), e gli Anglosassoni e Scandinavi (John-son). Sono tutti patronimici maschili, come gli italiani de Tommaso, di Donato… È però degno di nota che, nella Locri magnogreca, la poetessa Nosside dica di se stessa di essere “figlia di Cleoca figlia di Teofilide”, secondo una genealogia matrilineare. Non ci sono, del resto, cognomi italiani come di Maria, de Paola? E, in alcuni paesi della Calabria, le persone, anche i maschi, vengono indicati spesso con un matronimico: “Micu e Maria”.

 Una curiosità nostrana ormai dimenticata. Nella Locride era costume che, se un uomo sposava una donna ritenuta di più elevata condizione sociale, la famiglia usasse il cognome legale paterno, ma venisse indicata con un soprannome derivato da quello materno. La famiglia Fragomeno di Siderno, miei avi, era chiamata per questo motivo i Congiùstini, e i Congiusta a loro volta Ferrèttini. Qualcosa di simile accade, nel Verga, a Gesualdo, che, ricchissimo ma plebeo, viene chiamato non Motta, bensì Trau come gli aristocratici e spedalitissimi parenti della moglie.

 I Romani nobili maschi avevano tre nomi (Caio Giulio Cesare), mentre le donne, in età repubblicana, erano indicate solo con il nomen della gens: Giulia, Claudia, Valeria… Non così in età monarchica, dove è attestata, per esempio, una Dindlia Malcolnia; o nella tarda età imperiale, con Cecilia Metella o Galla Placidia. Un sistema patriarcale, quello dei Romani: ma non possiamo passare sotto silenzio che, a nostro avviso, cognomi romani come Catone, Marone, Varrone, in origine erano parole femminili. 

 Nel Medioevo le donne portavano nome e cognome, e ne lasciavano traccia nell’onomastica: una signora forse di Ferrara, Alighiera degli Alighieri, sposò un cavaliere fiorentino, Cacciaguida, “e quinci il soprannome tuo si feo”: ne derivò il cognome di Dante.

 Niente di nuovo sotto il sole, nemmeno nella storia dei cognomi.

Ulderico Nisticò