Come mai nel mondo ricco ci sono i poveri?


 La storia antica mostra moltissimi episodi di carestie e altri negativi fenomeni economici. Attenti, dico economici, non finanziari: nei secoli antichi, infatti, i problemi non erano di soldi, ma di beni reali. Esempio europeo: le regioni settentrionali del continente erano oppresse dalla fame, prima dell’introduzione delle patate nei secoli XVII e XVIII. Esempio nostrano: negli anni 1920, prima della Battaglia del grano, la media di produzione di un campo italiano era di tre quintali per ettaro, di cui uno andava conservato per la semina.

 Anche la produzione di oggetti era scarsa, e gli utensili furono rari e preziosi e trasmessi di nonno in nipote.

 Oggi il mondo occidentale produce di tutto e in tali quantitativi da rendere grave il problema degli scarti e rifiuti. Siamo di fronte a questioni di sovrapproduzione, dunque, al contrario dei secoli passati, che soffrivano di produzione scarsissima. Ebbene, com’è che ci sono i poveri, e anche tanti?

 È evidente che il problema del mondo contemporaneo non è di produzione ma di distribuzione; ovvero, i beni, prodotti in grandissime quantità, non arrivano a tutti.

 E che ci vuole? Si pigliano i beni e si distribuiscono. Pigliamo, faccio per dire, tutti gli oggetti d’oro e argento custoditi nelle chiese e nei musei, e ne diamo uno ciascuno ai poveri. Articolo finito.

 Scherzo, ovviamente, e scherzo con pesante ironia nei confronti di qualche utopista di turno che invece lo pensa davvero. Provate a immaginare, nella follia pauperistica, che la Venere del Botticelli tocchi a un poveraccio qualsiasi: il giorno stesso la venderebbe per una cena al rigattiere, tornando il giorno dopo a morire di fame. Non esistono questi rimedi immaginari; e del resto la Colonna di Era Lacinia non si mangia, quindi è inutile assegnarla a un indigente, o a uno che non avrebbe manco idea questa Era chi era!

 Ho dichiarato dunque che distribuire non significa dare tutto a tutti e gratis, e magari senza in cambio un lavoro. È il contrario: consentire ai poveri di procurarsi onestamente e con prudenza di che vivere, e con l’unico mezzo serio, che è il lavoro.

 Quale lavoro? Fino a tempi nemmeno tanto antichi, c’era per tutti del lavoro anche poco e niente qualificato, e che più esattamente chiamo fatica brutale. Oggi non c’è più spazio per la manovalanza generica; e occorre dunque una preparazione professionale. Va ripensata la scuola, e va recuperato l’apprendistato. Serve anche combattere certe ideologie troppo alla moda: tanto non era vero nemmeno all’epoca di don Milani che i figli degli avvocati leggessero i libri comprati dal padre per arredamento del salotto buono. Perché l’economia del mondo moderno funzioni, occorre un retroterra (per gli anglomani, background) di tecnici e strumenti e interconnessioni. Occorrono dunque scuola e apprendistato severi, non “inclusivi” a comun denominatore quasi zero. Tanto il mitico pezzo di carta non lo piglia in considerazione nessuno, ivi comprese le piogge di cento e lode degli esami. Fo todos barones.

 L’economia liberista, dunque, non è governata e vaga nell’anarchia; e, peggio, è in mano ai monetaristi, una genia di ciuchi con otto lauree e sedici master, i quali sono veramente convinti che i soldi (nel nostro caso euro) siano cose reali e non carta come invece sono. I soldi dovrebbero rappresentare i beni reali, non essere un valore in sé, un idolo da placare con vittime umane, come sta facendo l’Europa dal 2001.

 Esempio finale, il turismo, che nelle varie perle e perline sta andando male perché rimasto agli anni 1960, quindi dilettantesco, e speranzoso, anzi sicuro che il forestiero, passando per caso, si beva davvero che il nostro è “il lido più bello del più bel mare del mondo”, una cavolata che gira da allora e non risponde minimamente al vero; e, ingannato, dalle chiacchiere, il passante elegga Soverato a suo estivo domicilio in nero. E invece il forestiero ha scelto a gennaio dove andare d’agosto.

 Anche il turismo, soprattutto il turismo, ha urgenza di diventare professionale.

Ulderico Nisticò