Disfatta concettuale della scuola italiana


Dati di ricerche internazionali, e perciò disinteressate, attestano che:

1. i ragazzi italiani sono debolissimi in italiano e in scienze;
2. sanno appena leggere, e non sono in grado di comprendere un testo appena appena complesso;
3. le ragazze sono messe meno peggio dei maschi;
4. il Sud è anche in questo inferiore al Nord.

Secondo me, il punto essenziale è il 2, cioè il pensiero unico e la tendenza mentale e scolastica alla semplificazione rassicurante e al metodo del sì/no; buono/cattivo; ricco/povero; bianco/nero… senza alcuna attenzione alla realtà vera, che è invece sempre qualcosa di intermedio, e mai assoluto e definito.

Il problema non è dunque se un ragazzo conosca o meno la formula dell’acqua semplice (H2O) o dell’acqua ossigenata (H2O2); o la differenza tra da e dà, se e sé… sono nozioni, e prima o poi o s’imparano; o, se non apprese a suo tempo, si correggono. È che il fanciullo non è educato a prendere atto che tra la prima e la seconda acqua non c’è uguaglianza, ma differenza; e lo stesso tra una preposizione (da) e un verbo (dà), eccetera… Insomma, non è una questione tecnica, ma proprio di trasmissione della cultura nel senso più nobile.
E qui devo ricordare la mia scuola, dal 1955 alla metà del 1968; e in particolare gli anni di Media e Ginnasio Liceo… o forse soprattutto la Media. Avevo nove anni, in Prima, quando studiavamo sì le cinque declinazioni e le quattro coniugazioni latine… ma via, sciocchezzuole che il programma prevedeva di spicciare in qualche mese, robetta… E il sottinteso era che se uno non imparava le declinazioni in un paio di mesi, via a casa, ed era meglio per lui e per la classe!

Ma no, l’importante era che la mia antologia italiana – ce l’ho ancora – era fatta tutta di testi da realtà complessa e conflittuale e contraddittoria e difficile, e i miei insegnanti, tutti preti salesiani, ce l’insegnavano senza farsi il benché minimo scrupolo di quelli che in seguito si sarebbe chiamato il politicamente corretto. Altro che buonismo e ottimismo demenziale, quando imparammo i terribili versi de “Il sonno di Carlo Magno” di Arturo Graf:

Sogna, e la mente stanca e sbigottita
gli si dipinge sulla fronte prona,
e la sua voce in un lamento suona:
“Signore Iddio, mi scampa dalla vita!”

Come avvertire che la vita non è una vacanza in cerca di una bambinesca felicità, ma una faccenda tragica e seria; e che chi non era capace di accettarla com’è, non era nato per la vita… e nemmeno per la scuola. Altro che “un ragazzo di quarant’anni”!
Arrivati in Seconda, via con l’intera Iliade, preceduta da questa spiegazione: né i Greci possono rinunciare ad Elena, né i Troiani possono restituirla, o farebbero entrambi una pessima figura. Soluzione? Una bella guerra con quel che seguì nei secoli; e senza la quale la letteratura mondiale si ridurrebbe alla Vispa Teresa…

Queste cose sono successe a me, non un milione di anni fa, ma di recente… beh, diciamo. Fu così che io imparai che un uomo è un uomo; e che la vita è dura e bella proprio, solo per questo!
Ecco cosa manca, non la conoscenza o meno della formula dell’acido solforico (H2SO4) o l’aoristo terzo, che solo ai professoroni pare una cosa difficilissima e invece è una banalità: manca l’idea che a scuola i ragazzi vengono per crescere in fretta, e non per restare bambinoni anche in casa di riposo!

Ecco perché le fanciulle sono messe meno male: perché la femminilità è complessa per natura. Ah, ovviamente ciò nonostante il tentativo di dimostrare che tra maschio e femmina “il n’y a qu’une petite difference” meramente anatomica. E invece, direbbe Aristotele, A è uguale solo ad A, perciò è diverso da B… e figuratevi da Zeta! Purtroppo, a furia di andare a scuola, anche le signorine, dopo un poco, si appiattiscono pure loro al pensiero unico.

Insomma, bisogna intervenire non sulla conoscenza o meno del futuro greco del congiuntivo (fatevi sotto, vediamo chi risponde), ma sulla radice profonda del male della scuola e dell’educazione, che è il principio di uguaglianza di tutto e di tutti; giacché l’uguaglianza si può avere solo in termini minimi, in basso; e perciò la scuola è al minimo, e sotto.
Quanto al Sud, c’è un’altra causa del degrado, ed è la scuola diplomificio, il “pezzu e carta” per ottenere un “postu”, ovviamente con il minimo sforzo, e senza mai dubitare del professore, “si no ti pijjia supr’occhiu”, s’intende non perché non sai ma perché sai, e magari ne sai più di lui. Sei politico… oggi anche 110 e lode.
Professore il quale tutto fa, tranne che seminare benefici dubbi.

Ulderico Nisticò