La Diocesi cattolica di Lungro, detta in greco Eparchia (ἐπὶ – ἀρχή, governo ispettivo, episcopale), è stata ufficialmente istituita nel 1919 da papa Benedetto XV; e comprende, senza continuità territoriale, più centri delle province di Cosenza, Potenza, Matera, Lecce, Bari e Pescara.
L’eparca è un Vescovo della Conferenza Episcopale Calabra; ma l’Eparchia segue il rito greco, con alcune singolarità. La più evidente è quella cerimoniale, che, per i Greci, è sostanza: il sacerdote celebra (non “presiede”) con le spalle al popolo, e rivolto all’altare; e con adeguata solennità.
In verità però nella cattedrale di San Nicola di Mira (non di Bari) ho letto, a caratteri cubitali, il Credo con l’affermazione che lo Spirito Santo procede dal Padre come il Figlio, e non “dal Padre e dal Figlio”. Mi fermo qui con la teologia, lasciandola a chi di competenza.
La storia, che è invece competenza mia, è antica. L’anno 732, l’imperatore Leone III Isaurico, nell’ambito dell’iconoclasmo, sottrasse a Roma le Diocesi del suo dominio italiano, e le sottopose a Costantinopoli. La Calabria (già cominciava a chiamarsi così) fu organizzata attorno all’Arcidiocesi di Reggio, cui seguì quella di S. Severina.
Si trattava però di organizzazione, ancora, senza questioni teologiche. Man mano che cresceva l’autorità del Vescovo di Roma e la sua proclamazione a Capo universale della Chiesa, si allargava il divario con Costantinopoli; finché, alleatasi Roma con i Normanni, nel 1054 si giunse definitivamente allo scisma, finora irreversibile. Le Chiese ortodosse, che sono autocefale, riconoscono al papa il primato morale di successione di Pietro (Costantinopoli, del resto, non è di fondazione apostolica), ma nessuna autorità, tanto meno di proclamare Dogmi: non accettano nemmeno il calendario di Gregorio XII. Questo è lo scisma del 1054.
Ci sono conseguenze politiche (ma per le Chiese orientali non c’è distinzione), e ne parleremo altra volta.
Ma più di mezzo secolo prima, san Nilo di Rossano, che era monaco e non secolare, aveva preso tutt’altra strada; e lasciando la Calabria e l’Impero d’Oriente, passò prima a Gaeta, poi a Grottaferrata, che è tuttora il centro del rito greco cattolico in Italia.
Mentre dunque i Normanni, conquistando il Meridione, sottoponevano le Diocesi a Roma, e toglievano la Sicilia agli Arabi, i monaci conservavano sì la lingua greca, ma separavano le loro sorti da Costantinopoli. I Normanni li protessero, anzi istituirono nuovi cenobi, o ne rinnovarono di antichi. Qui da noi, San Giovanni Theresti di Bivongi; San Pietro d’Arena; San Basilio Scamardì alla Torre.
Il monachesimo greco visse ancora fino al XV secolo, e la visita di Atanasio Calceopolo, inviato da Roma, trovò, per restare qui vicino, San Giovanni Theresti e San Gregorio Taumaturgo di Stalettì.
La fede “greca” venne tollerata da Normanni e Svevi, ma perseguitata dagli Angioini, e si ridusse a una sorta di clandestinità, senza del tutto venire meno. Un curioso episodio mi venne raccontato in casa Nisticò, senza però precisare epoca e luoghi, e come me lo dissero ve lo dico.
Un prete della mia famiglia portava la barba: segno di rito greco. Trovandosi lontano, volle dire Messa; ma il sacrestano, proprio per la barba, glielo voleva impedire. L’avo barbuto, uomo forte, lo sollevò dalle ascelle, e, mostrandogli un crocifisso, proclamò con tono imperioso: “Egli ha la barba? E io dico Messa”; chissà se fu vero, e quando, e dove.
Nel 1579 nacque, ufficialmente, un Ordine greco cattolico detto Basiliano, che visse fino al XVIII secolo, ed ebbe il merito di conservare tradizione e documenti.
Gli Albanesi, giunti dal XV al XVI secolo, riportarono il rito greco, pur divenendo cattolici. Nel 1794, preceduto da un’esperienza a San Benedetto Ullano, venne istituito dai Borbone il Reale Collegio italo-greco di Sant’Adriano, dove si formarono intellettuali, in verità poco borbonici e piuttosto liberali.
Nel 1919, dunque, ecco l’Eparchia, con la conservazione del rito greco. Per la Sicilia, c’è un Eparchia di Piana degli Albanesi.
Ulderico Nisticò