Montecristo della RAI, a netta differenza del Leopardi, ha messo in scena, più o meno, il romanzo di Dumas, senza inseguire intellettualismi e filosofie della domenica. Le comte de Monte-Cristo, di Alessandro Dumas padre (e del dimenticato Augusto Maquet), venne pubblicato dal 1844, a puntate come si usava allora: allegato di un quotidiano, che veniva ritagliato e cucito artigianalmente in casa. Si chiamavano perciò romanzi d’appendice, o feuilletton.
Siamo nel romanticismo francese, che era borghese e realistico, lontanissimo dallo Sturm und Drang tedesco. Di romantico, in tale letteratura francese, c’è l’esigenza, anche di cassetta, di metterci sempre un poco di inverosimile e di sorprendente. Jean Valjean di Hugo è un povero operaio che, tra una condanna e varie evasioni, resta 19 anni in galera; poi diventa industriale e sindaco; nuovamente galeotto; finto borghese ed effettivamente benestante; partecipe di sommossa; e in mezzo a tutto questo, inconsapevolmente innamorato di Cosette; infine morto triste e solo com’era nato. Se ci mettete una misteriosa istruzione e una possente forza fisica, abbiamo sia il titanismo sia il vittimismo.
Dantès, all’inizio, non è né vittima né titano, e vorrebbe solo sposarsi. Finisce, senza saperlo, in un gioco che riguarda Napoleone ormai relegato all’Elba (siamo dunque tra 1814 e 15), il suo fugace ritorno finito a Waterloo, e l’esistenza di un partito bonapartista, che del resto nel 1849 e fino al ’70 tornerà al potere in Francia. E qui mi taccio con i corsi e ricorsi!!!
Relegato in una prigione che peggio non si può, Dantès sopravvive, e incontra l’abate Faria che, nel tentativo di evadere, ha sbagliato mira di scavo; in modo paradossale si frequentano, e, prima di morire, l’ecclesiastico, dopo un intenso corso di studi, rivela una bella sorpresa: il tesoro nascosto nella sperduta isola di Montecristo.
Fine della prima puntata. Intanto i nemici di Edmondo hanno tutti percorso un’ancora più sorprendente carriera militare, politica, giudiziaria, diventando, da piccolo-borghesi, alti esponenti della classe dirigente del regno di Luigi Filippo (1830-48). Piomba su di loro uno sconosciuto ma ricchissimo e raffinatissimo conte… con quel che ne seguirà. Sono curioso di sapere che farà la Mercedes tv, perché quella del romanzo è abbastanza smemorata.
Ora divertiamoci a immaginare che i Promessi Sposi siano stati scritti dai Dumas e soci, invece che dal castigato e classicista Manzoni. Facciamo un gioco da intelligenza artificiale? Ebbene, guardate che uscirebbe:
– Renzo, venuto a sapere delle oscene intenzioni di don Rodrigo, lo affronta in duello;
– ovviamente, viene sconfitto e gravemente ferito, ma, sempre ovviamente, resta vivo;
– fuggito in un bosco, incontra una comitiva di zingari, e tra loro una procace zingarella maga, che lo guarisce… eccetera;
– poiché l’aria che tira è scomoda, Renzo segue i gitani fino in Germania, dove è in atto la Guerra dei Trent’anni praticamente di tutti contro tutti; e siccome uno vale l’altro, si arruola con le truppe di “Vagliadisteno” (Wallenstein), e da soldato semplice diventa al volo generale e oltre; mentre la signorina rom si arrangia altrimenti;
– a questo punto, il generale… no, feldmaresciallo Renzo barone von Tramallen si mette in proprio, e, giunto in Italia alla testa di un esercito, partecipa da protagonista alla Guerra di Casale, alleandosi con l’innominato, che quando c’è da menare le mani non lo ferma nessuno;
– il potentissimo barone mercenario, tra una conquista e l’altra, risfida don Rodrigo, e lo uccide;
– Lucia intanto, priva di notizie, ha sposato un cugino di don Abbondio; e raccomanda a Renzo un figlio dalle spalle larghe e voglia di combattere, che però preferisce la flotta di Venezia in guerra contro i Turchi;
– Renzo, ormai nobile, impalma una delle tante figlie di un conte lombardo;
– la quale ogni tanto, durante le gesta belliche del marito, dà adito a un romanzo parallelo su cui non mi soffermo, e lascio all’immaginazione del lettore.
E siccome nei Promessi Sposi non succede nulla di tutto ciò, ecco che l’opera del Manzoni, nella versione studiatissima del 1840 (Quarantana) è un poema classico, e obbedisce alla regola aurea di ogni classicità: ne quid nimis, mai niente di troppo; e niente di inverosimile.
Ulderico Nisticò