Il disgusto dei bignè


 Un bignè piace, due bignè piacciono; dieci bignè, e solo bignè, disgustano. È quello che succede, e non nel 2021 per la prima volta, alle civiltà troppo ricche, troppo comode e troppo annoiate.

 Tra fine V e primissimi del IV secolo, nel fulgore della civiltà ateniese, Euripide cantava “in molte cose i barbari sono superiori ai Greci”; due secoli dopo, Polibio spiegava che i Romani, privi di teorie della politica, si governavano in modo nettamente migliore di ogni esperimento greco.

 Tacito ammirava la semplice e sana barbarie dei Germani. Cassiodoro riteneva che lo smidollato popolo romano aveva evidenti vantaggi dalla presenza di un popolo giovane e sano e guerriero come gli Ostrogoti.

 Dobbiamo saltare molti secoli, per scoprire quando si è creata la leggenda dotta, poi popolare, che oggi si chiama terzomondismo. Nel Settecento, secolo di raffinata e amorale civiltà, gli Europei, stanchi e stufi di minuetti e liasons dangereuses, ovvero corna, diedero retta a quelli che, saggiamente, il Vico (sconosciuto e inascoltato anche oggi) chiamò “sformati racconti di viaggiatori per dare smaltimento ai loro libri”, cioè che nelle Americhe abitassero popoli primitivi, e perciò liberi buoni felici. Rousseau [pensatore, non piattaforma!] concluse che bisogna vivere secondo natura come quei simpatici e ridanciani selvaggi.

 Non ci credette nessuno di quelli che effettivamente conobbero gli Amerindiani; ma la cosa continuò e continua ad essere insegnata nelle scuole, e tuttora da professori a corto di idee per la traccia del tema. Negli anni 1930, il Lévy Strauss per primo andò a vivere in mezzo ai selvaggi, e, con il suo testo “Tristi Tropici” raccontò che non erano né liberi né buoni né felici né selvaggi, ma uomini come tutti gli altri, a parte la tecnologia.

 Inutile sforzo: c’è sempre chi, pontificando in tv e in parlamento, invoca l’arrivo di qualche milione di buoni e felici dei miei stivali; mentre tutti leggono che gli Spagnoli cattivi oppresso gli Aztechi, persone di buon cuore… il cuore degli altri, che venivano squartata vivi, poi il cuore offerto a non so chi, e siccome non si butta mai la grazia degli dei, il resto mangiato a stufato. Non potendo negarlo, i professori sono pronti a sparare la cavolata immane che facevano sì a pezzetti il prossimo, ma al nobile scopo di tenersi amico il Sole.

 Anche noi Europei non siamo certo teneri; ma nemmeno gli altri; e siamo tutti pari.

 Lo stesso per il progresso. Tutti seguaci di Greca (a proposito: è sparita?), nessuno spiega che prima del bieco progresso i nonni dei bimbi ecologisti era miracolo che campavano 50 anni, eccezioni a parte; e che malattie insignificanti si portavano via mezza popolazione; e le donne morivano di parto… e la gente non mangiava non a seguito di cupe ingiustizie sociali come qualcuno spaccia, ma per fisica mancanza di cibo. Oggi quasi tutti abbiamo il problema di dimagrire.

 E le malattie si curano con medicine prodotte dalle odiose case farmaceutiche, le quali – orrore! – ci guadagnano.

 È ovvio che il progresso ha ucciso la letteratura, che è praticamente una cronaca (proprio come durante l’Impero Romano), e l’arte (vedi chiese postconciliari) e la politica e le passioni. Ma non si può avere tutto, nella vita.

 Come ho dimostrato, quanto sopra sono manie cicliche fin dai tempi dei tempi. E si aggiunge, ogni tot secoli, anche il terrore dell’Apocalisse per un motivo qualsiasi. Oggi è dogma giornalistico, scolastico e politicante è che presto saremo tutti morti di inquinamento o riscaldamento globale e o taglio di alberi come nell’isola di Pasqua. I nostri “nati natorum et qui nascentur ab illis”, ovvero pronipoti dei pronipoti dei pronipoti, vivissimi nel 2321 (non si sa in che condizioni, se di progresso o di regresso, ma vivi) ci rideranno sopra. Ovviamente, anche loro aspettando la fine del mondo.

Ulderico Nisticò