La parola Israele è di quelle che hanno bisogno, ogni volta, di un chiarimento. Nella Bibbia, Israele è Isacco, figlio di Abramo. Dopo la morte di Salomone, gli Ebrei si dividono in un Regno di Giuda e un Regno d’Israele, territori poi finiti sotto Babilonesi, Assiri, Persiani, Macedoni, Romani, Romei, Arabi, Turchi, Crociati, Inglesi…
Nel linguaggio cristiano, Israele è un nome simbolico per indicare la Rivelazione, o esplicitamente Gesù, con richiami biblici ma non giudaici.
Nella terminologia politica dei secoli XX e XXI, esiste uno Stato d’Israele, parola che ha qualcosa a che vedere con il primo significato, ma nessuna con il secondo: meglio precisare. Iniziò più di un secolo fa l’immigrazione sionista (“ritorno a Sion”, Gerusalemme), mentre dal 1917 le due sponde del Giordano erano, a titolo di Mandato, sotto occupazione della Gran Bretagna. Questa condusse una politica ambigua e incerta, da una parte tollerando, quando non favorendo (Dichiarazione Balfour) l’elemento ebraico; dall’altra non potendosi inimicare gli Arabi. Questi mostrarono simpatie per Italia e Germania, e, nel 1941, l’Iraq si ribellò, alleandosi con l’Asse, ma venendo subito represso.
Intanto avvenivano, nel 1929 e nel 1936, i primi scontri armati tra Ebrei e Arabi. Finita la guerra, Londra si diede alla fuga precipitosa, mentre l’ONU tentava un accordo: ma il solo tentativo serio venne immediatamente impedito con l’assassinio, da parte di una banda ebraica, dell’inviato, il conte svedese Bernadotte, della famiglia reale. Nel 1947, la prima guerra; nel 1956, attacco arabo a Israele; 1967 e 1974, altre guerre propriamente dette. Prima e dopo, una continua vicenda di attentati e reazioni.
Negli anni, come forse qualche anziano ricorderà, raffiche di parole: accordi, paci, nuovi scontri, ridicole road map, ONU… impacciati e ambigui interventi degli USA, la solita assenza totale dell’Europa.
E in mezzo a tutto questo, la pericolosa confusione linguistica di cui sopra, il cui effetto, più o meno casuale o volontario, è aumentare l’ambiguità e allontanare ogni possibilità concreta di convivenza di Stato d’Israele e Palestinesi.
A mio avviso, la principalissima precondizione di pace è che la comunità internazionale assuma un atteggiamento di distacco netto, evitando ogni tifoseria culturale e politica. È fondamentale l’uso di un linguaggio di fredda valenza diplomatica: lo Stato d’Israele va trattato, anche nell’immaginario, come uno Stato qualsiasi, con gli stessi identici doveri e diritti degli altri; e i Palestinesi come un popolo, e non come un residuato di marxiano proletariato; e che devono divenire Stato con gli stessi doveri e diritti degli altri.
Tra i doveri di entrambi, non mettere in pericolo la pace del mondo. Di guerre ce ne basta e straavanza quella sul Mar Nero.
Che altro si può fare? Beh, diminuire nettamente gli aiuti finanziari a Palestinesi e Stato d’Israele. Chissà, senza sostegni esterni, tutti e due le parti quanto tempo resistono? Secondo me, molto, molto poco.
Ulderico Nisticò