La Base spaziale di Papanice


 Immaginiamo che l’Europa e l’Italia, colte da follia, decidano davvero di spendere i soldi del recovery [plan, plen, plin, plon, plun, secondo i giornalisti di turno] a Sud, e non il 70, ma 80, il 90, il 100% e tutto il cucuzzaro. Perciò l’Italia impianta una Base spaziale, e non in Piemonte o in Friuli, ma, ovviamente, a Sud, in Calabria, e, estratta a sorte la località, esca Papanice. Papanice è un noto modo di dire per luogo che non esiste, e invece c’è, ed è una frazione di Crotone.

 Mi pare di sentirli, i Pino Aprile e pinoaprilati: “Finalmente riconosciuti i diritti… Finalmente resa giustizia… Finalmente…” E magari qualche istruito si ricorderà del pitagorico Archita di Taranto, che faceva volare degli uccelli meccanici. E giù le bufale tipo “L’aviazione è nata a Sud… Quando a Milano vivevano nelle capanne, noi volavamo… “. Non scherzo, ridicola roba del genere si legge ogni giorno sui social, a dimostrazione della frustrazione meridionale che trova rifugio nella superbia alla “Mio nonno era barone”.

 Intanto però sorge la Base spaziale, da cui un razzo dovrebbe partire per il pianeta Marte. Una bella cosa, dite voi. E invece, e invece pensateci bene, amici.

 Per fare una Base… o anche solo per fare, che so, una strada, occorrono molte cose, sia immateriali, come conoscenze e competenze; sia materiali: cemento, acciaio, alluminio, plastica… Forse, telefonando a Genova o in America, ingeneri spaziali e stradali calabresi se ne possono trovare, e anche bravi, oggi cervelli in fuga; con gli operai specializzati, già andiamo meno bene, perché i diplomati in una specializzazione ci sarebbero, ma si sono impiegati al Comune e fanno i dattilografi…

 E il cemento, l’acciaio, la plastica eccetera? Ecco, tutta questa roba la dobbiamo importare da fuori; anche il cemento, perché le fabbriche locali sono chiuse da anni, e quella di Catanzaro da mezzo secolo, poi demolita; e figuratevi la plastica, l’acciaio, e il complesso di aggeggi della telematica.

 Insomma, per la Base, Papanice di suo metterebbero solo i terreni, guadagnando qualche soldo per gli espropri. È la stessa faccenda dei vaccini prodotti in India in fabbriche circondate dalla foresta con tigri.

 Lo stesso per il turismo, per esempio, di Soverato: e sarei curioso di sapere quanta roba prodotta in Calabria si dia da mangiare ai forestieri; e scommetto poca: perciò non c’è indotto, non si genera lavoro, e larga fetta del volume d’affari va altrove.

 Non dobbiamo dunque iniziare dalla Base spaziale di Archita e dei suoi giocattoli in edizione unica; ma da quello che i giornalisti pacchiani chiamerebbero background, ovvero tessuto produttivo: così funziona la produzione, nel mondo moderno, con una fabbrica importante circondata non da alberi selvatici, ma da una rete di piccole e medie aziende.

 Basta con i sogni di scorciatoie verso la ricchezza, tipo, per capirci, l’Acquario che fu. A Sud servono strutture di produzione e commercializzazione reali e non assistite, che partano dalle risorse locali per trasformarle e venderle.

 Occorrono finanziamenti, certo: ma a patto di vedere subito arrestato e gettato in carcere a pane e acqua il primo furbetto che, con i soldi, impianti un capannone rigorosamente vuoto, e solennemente inaugurato a portone chiuso.

 Occorrono strade nuove, certo: ma a patto di vedere esposto al pubblico ridicolo il primo che chieda uno svincolo supplementare pro casa di zia, e una variante qualsiasi. Vedi Trasversale con o dopo Soriero.

Ulderico Nisticò