La metarealtà


Il territorio singolare delle Serre Calabresi: dalla nutrizione vegetariana ai grandi ideali della Prima Italia e della Magna Grecia fino ai nostri giorni ovvero La metarealtà

Salvatore Mongiardo

Ringrazio e saluto Rosa e Francesco Brancatella, Michele Meomartino, Sonia Baldoni e tutti gli organizzatori di questo incontro che nasce sotto buoni auspici. Difatti, abbiamo con noi una donna speciale, la madre di Rosa, la mitica maestra Vera, che, compiuti i cento anni di età, è voluta tornare alla madre terra di San Vito. La maestra Vera, che cordialmente saluto, cerca in Calabria la cosa che tutti qui cerchiamo, un ventre caldo, cioè un calore che ci ristori dalle durezze della vita.
Per capire il territorio delle Serre Calabresi, dobbiamo pensare alla Terra com’era milioni di anni fa, quando la penisola italiana emergeva dal mare e, ultima a sollevarsi, fu proprio la Calabria. La quale ha tre massicci: Sila, Aspromonte e Serre, che d’inverno s’inzuppano di acqua con le piogge e la neve e danno così vita a una ricchezza di alberi, piante, erbe, fiori e frutti che difficilmente nascono tutti nello stesso luogo. Questa particolarità della Calabria, chiamata nella preistoria Ausonia o Terra dell’Abbondanza, è ben descritta dalla denominazione greca di Calabria, che significa semplicemente la Buona Sorgente. Inoltre, la gola di Marcellinara, di circa venti chilometri tra Mare Tirreno e Jonio, favoriva lo scambio di venti e calore rendendo la terra facile da coltivare anche a grano, da quando questo fu scoperto circa diecimila anni fa. La Calabria fu abitata da almeno mezzo milione di anni da vari popoli. Conosciamo il nome di alcuni: i Pelasgi, i Sicani, i Morgeti, i Làmeti, gli Oschi, i Liguri, i Coni, i Tauri, i Bruzi e gli Enotri.
Questi ultimi, produttori di vino e allevatori, si convertirono all’agricoltura, abbandonarono l’allevamento degli animali e diedero vita all’Italia ad opera di Re Italo, che Aristotele riporta a molto prima del 1500 a. C. L’Italia era fondata sull’amicizia e sul Sissizio, il banchetto comunitario che si teneva in occasione della distribuzione paritaria delle derrate alimentari.
La particolarità della Calabria nel dare frutti tutto l’anno era conosciuta già nel mondo antico dai popoli che si affacciavano sul Mediterraneo: era l’Italia della Grecia, la terra grassa che produceva olio di oliva, come ritenevano gli ebrei. Una tradizione, riportata dal rabbino chassidico Y.Y. Schneerson, vuole che quando Mosè si trovava nel deserto con il popolo fuggito dall’Egitto, ricevette da Dio l’ordine di celebrare la festa delle Capanne o Sukot per il ringraziamento dopo il raccolto. Per quella festa era indispensabile il frutto del cedro che Mosè ovviamente non poteva trovare nel deserto, e allora mandò dei messaggeri su una nuvola a prenderlo in Calabria, dove il frutto era purissimo e non derivava da innesti. Questa raccolta rituale si è ripetuta poi, di fatto, da tempi antichissimi fino a oggi nei comuni di Santa Maria del Cedro, Marcellina e Cetraro.

Se dall’arida Palestina ci spostiamo alla Grecia antica, vediamo come nell’Odissea, al Settimo Canto, Omero descrive il giardino di Alcinoo. Scherie, la terra dei Feaci, come ha dimostrato il Prof. Armin Wolff di Francoforte, sorgeva non lontano da qui, a Tiriolo. Lì, come canta Omero, molte ancelle del re macinavano il biondo grano nel cortile e accanto ad esso, nel giardino chiuso da muro:

Alte vi crescon verdeggianti piante,
Il pero e il melagrano, e di vermigli
Pomi carico il melo, e col soave
Fico nettareo la canuta oliva.
Né il frutto qui, regni l’estate o il verno,
Muore o non esce fuor: quando sì dolce
D’ogni stagione un zeffiretto spira,
Che mentre spunta l’un, l’altro matura.
Sovra la pera giovane e su l’uva,
L’uva e la pera invecchia, e i pomi o i fichi
Presso ai fichi ed ai pomi. Abbarbicata
Vi lussureggia una feconda vigna…

La fruttificazione lungo tutto l’anno, è ripresa da San Giovanni nell’Apocalisse al capitolo 22, quando descrive la Gerusalemme Celeste, con riferimento molto probabile alla terra grassa dell’Italia dei Greci:
Fra la piazza e il fiume, di qua e di là, alberi di frutta che portano frutto dodici volte, una ogni mese, con foglie dalle virtù medicinali per la guarigione delle genti.
Questa rappresentazione della Calabria, molto viva nel mondo ebraico e greco, è confermata da un testimone oculare tedesco quale fu San Bruno di Colonia, il fondatore dei certosini, che venne a stabilirsi proprio qui e scriveva, intorno al 1096, al suo amico Rodolfo il Verde rimasto a Reims in Francia:
Il territorio di Calabria… della sua amenità, del suo clima mite e sano, della pianura vasta e piacevole che si estende per lungo tratto tra i monti, con le sue verdeggianti praterie e i suoi floridi pascoli, che cosa potrei dirti in maniera adeguata? Chi descriverà in modo consono l’aspetto delle colline che dolcemente si vanno innalzando da tutte le parti, il recesso delle ombrose valli, con la piacevole ricchezza di fiumi, di ruscelli e di sorgenti? Né mancano orti irrigati né alberi da frutto svariati e fertili.

Seguiamo allora San Bruno, che lascia il Gran Conte Ruggero d’Altavilla a Brindisi e giunge con un’imbarcazione a Poliporto di Soverato. Lì egli sbarca e risale il fiume oggi chiamato Ancinale, che nasce nel bosco di Serra da sempre chiamato Lacina: Ancinale è corruzione di Lacinale. Attorno alla Lacina vissero popoli italici dediti all’agricoltura, che usavano mettere in comune il raccolto del grano per dividerlo in parti uguali e, con il primo grano mietuto, modellavano e infornavano un Bue di Pane per ringraziare l’animale che aveva tirato l’aratro per preparare i campi alla semina autunnale.
Non è mia competenza parlare a voi di piante e di alberi, anche se con il professor Orlando Sculli, credo il maggior esperto vivente di botanica calabrese, abbiamo abbozzato una lista dei frutti che crescono in Calabria tutto l’anno, lista che amplieremo e diffonderemo. E quindi non parlerò del bergamotto né dell’annone, che sembra nascono solo da noi. Faccio invece il discorso che più mi sta a cuore, quello della metarealtà. Questa parola è un mio conio fatto per questo incontro, che aggiunge meta, che in greco significa dopo, in direzione, in cerca di. Metarealtà vuol indicare che la vita reale non è tutto, perché l’umanità tende necessariamente verso una dimensione superiore, punta in alto verso una realtà bella e desiderabile.
Per capirci meglio, prendiamo come esempio il Bue di Pane, fatto e distribuito a Spadola da svariati millenni. Questo Bue di Pane stava scomparendo per decisione delle autorità statali, dopo l’episodio dell’inchino della statua davanti alla casa di un affiliato alla criminalità organizzata a Oppido. La tradizione di Spadola, però, vuole che le vacchette di pane siano distribuite proprio durante la processione con la statua di San Nicola, che si ferma davanti alle case. Il mio deciso intervento e l’intelligenza del parroco don Bruno La Rizza hanno salvato questa tradizione, forse la più antica d’Europa, che ora ha ripreso forza e si sta diffondendo di nuovo. Essa avviene ogni anno la prima domenica di Agosto, quest’anno 2017 il giorno sei agosto a mezzogiorno.
Se seguiamo il Bue di Pane, vediamo che dai boschi della Lacina esso appare vicino al Tempio di Hera Lacinia a Crotone. I boschi della Lacina a Serra e Capo Lacinio a Crotone hanno la stessa etimologia, forse dall’indoeuropeo lac, da cui lago di acqua o superficie uniforme di fogliame. La materia non è ancora chiara, ma questi sono gli unici due posti al mondo con questo nome.
Scrive Porfirio che Pitagora, quando scoprì il suo famoso teorema, offrì in ringraziamento agli Dei un Bue di Pane facendo così del Bue di Pane Italico il simbolo della fine della violenza: non carne, ma pane.

Egli poi fece di più celebrando ogni sera, dopo cena, il sissizio con vino dolce e pane. Il vino degli Enotri e il pane degli Itali si univano nella fraternità pitagorica a simbolo di vita vissuta in armonia. Quella cena spianò la strada verso la metarealtà. Difatti, come scrivono Giuseppe Flavio e Filone di Alessandria, il sissizio pitagorico fu celebrato ogni sera dagli Esseni, gli ebri pitagorici di Israele, e dai Terapeuti, gli ebrei pitagorici di Alessandria d’Egitto. E come conferma a me per iscritto padre Enrico Mazza, grande storico dell’Eucaristia, quel sissizio diventò il rito di Gesù nell’Ultima Cena. E non è tutto, perché l’avventura della metarealtà continuò. Difatti, Eusebio di Cassano, papa nel 309, impose le tovaglie di lino bianco sugli altari secondo l’uso pitagorico. La forma stessa dell’ostia bianca e rotonda, che la chiesa greca ignora, è nata in questa terra dall’adorazione, praticata dai pitagorici, del sole che sorge. Pane rotondo come cibo del corpo e ostia rotonda come cibo dell’anima: questo è un bell’esempio di metarealtà.
La metarealtà, questa tensione ideale che portiamo nei nostri geni, è nota ma derisa da storici e letterati come vana utopia, sogno inutile, perdita di tempo. I fatti della storia, invece, dimostrano che essa è una forza enorme capace di staccarci dalla cruda realtà per portarci verso una dimensione superiore. Il desiderio di ogni vivente è la felicità e la Calabria suggerisce che la via verso la felicità passa dal nutrimento fatto col vegetale nel rispetto dell’animale cui è risparmiata la vita.
Domani Orlando Sculli vi parlerà dei frutti dimenticati della Calabria. Orlando ha ritrovato in un monastero greco abbandonato di Mammola l’ulivo del crisma, un albero che dà un olio trasparente come l’acqua: i monaci lo usavano per le lampade e per i sacri crismi. A Orlando ho recentemente ricordato che egli ha nell’orto anche il corno greco, il bamia, uno tra i più deliziosi ortaggi dal gusto tra la melanzana, la zucchina e il peperone. In Grecia e in Africa il bamia è ancora molto diffuso e con esso si prepara lo zighinì, un piatto favoloso. Piantare ogni anno il corno greco può accrescere la ricchezza della cucina e non costa nulla. I semi saranno disponibili attraverso i nostri amici di Samo e potrebbe rappresentare anche una fonte di onesto guadagno per chi volesse produrlo e commercializzarlo.
Oggi ricorre la festa della Maddalena, una delle Tre Marie che stavano ai piedi della croce. Maddalena udì il grido di disperazione di Gesù che si vide abbandonato dal padre: Padre mio, perché mi hai abbandonato? La Maddalena corse poi al sepolcro con gli unguenti per ungere il corpo di Gesù prima della sepoltura definitiva. Gesù era però vivo sotto forma di ortolano, qualcuno che cura le piante. Non era più il Buon Pastore, qualcuno che cura le pecore, come lui stesso si definì da vivo. Maddalena lo riconobbe e lo abbracciò, ma Gesù disse: Non trattenermi, devo andare dal Padre. Sono parole inquietanti, dette da Gesù che prima si era lamentato dell’abbandono da parte del padre. Quelle parole di Cristo risorto forse oggi diventano chiare nel loro significato profondo: esse indicano che il modello maschile deforma la storia e distorce perfino le manifestazioni della divinità.
Spero che Sonia Baldoni voglia fare l’unzione della Maddalena in segno di riunificazione del maschile col femminile, favorita dagli aromi che sono tutti di origine vegetale.
Il gesto dell’unzione fatto da una donna ci riporta alle donne italiche che abbandonavano casa e famiglia seguendo in questi boschi il Dio Dioniso al grido di evoè, evviva. Invito tutte le donne a fare come Sonia, come Rosa che si dichiara assetata di sacro, come Vanessa che ha appena solcato in kayak il Mare Jonio da Reggio a Crotone. Senza la divina follia delle donne il mondo è perso. Solo le donne possono cambiarlo destabilizzando questo mondo corrotto fin nel midollo, litigioso e guerrafondaio. Il compito delle donne è guidare il mondo, non tenere in ordine la casa e fare figli.
Donne di tutto il mondo, unitevi in Calabria, scatenate le vostre energie represse da millenni, generate un mondo nuovo perché la felicità è diritto di ogni vivente. Scrisse Tommaso Campanella: Ogni cosa si ravviva tornando là dove ebbe suo inizio.
Qui tutto è cominciato con la Prima Italia e con la Magna Grecia e tutto può ricominciare col cuore e il coraggio di voi Donne.
Evoè!

Salvatore Mongiardo


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