Lezione di comunismo


Marx

La semantica è una scienza che spiega i segni linguistici, cioè che le parole hanno un significato e non un altro; e ciò è vero soprattutto in filosofia e di conseguenza in politica. Il comunismo, in tutte le sue accezioni, Platone incluso, è la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Del resto, anche i Romani, che pure teorizzarono in modo estremo il diritto di proprietà, distinguevano tra “ager publicus” e “res familiaris”, e, più in generale, tra “publicus” (*poplicus, da populus), e “privatus”. Per gli Spartani, tutto era pubblico, assegnato ai privati. Nel Medioevo e fino a Napoleone, si può dire che nell’Europa cattolica non esisteva proprietà, ma possesso: e anche nelle nostre superstiti espressioni dialettali si dice “ava a terra”, “habet”, ne dispone, ci “habitat”, ma non è sua in senso totale.

L’illuminismo, legiferato definitivamente dal Codice Napoleonico del 1804, afferma i diritti dell’individuo, e tra questi anche… no, soprattutto quello di proprietà intesa in modo assoluto. Insorgono diversi pensatori socialisti, tra cui Rousseau, che però si danno alle più sbrigliate fantasticherie; e Marx, deridendoli, li chiama “socialisti utopistici”, elaborando il suo “socialismo scientifico”. E qui urge una lezioncina, a vantaggio e dei secredenti comunisti che non conoscono Marx; e di quanti, sbrigativamente, pensano che il comunismo sia una cosa per il bene dei poveri.

Premessa importante: per Marx i poveri sono Lumpenproletariat, sottoproletariato e nemici del proletariato, in quanto sempre disponibili provvisoriamente a sostenere chiunque provvisoriamente li sfami; non hanno coscienza di classe, anche perché non sono una classe. Classe è infatti, fin dai tempi di Servio Tullio, chi è individuabile in una categoria dell’organismo sociale e produttivo.

Torniamo al socialismo scientifico. Secondo Marx, il capitale si forma con lo sfruttamento del lavoro. Pagando l’operaio il meno possibile [attenti più avanti: qui è il punto debole di Marx!], il capitalista accumula e investe, mentre l’operaio resta in condizione di eterna debolezza; tanto più che lo Stato (“consiglio di amministrazione della borghesia”), legifera a vantaggio dei capitalisti.
Alcuni operai, alcuni e non tutti, prendono coscienza, e divengono così il proletariato consapevole dello sfruttamento; e si organizzano in partito lucido e disciplinato. Come vedete, nulla a che spartire con sfasciatori di vetrine, ragazzine del venerdì, benefattori della domenica, e sognatori vari.

I capitalisti, intanto, accumulano, finché un giorno pochissimi si trovano a detenere tutta la ricchezza, e non hanno a chi vendere. Il capitalismo implode, mentre il partito proletario, che ha atteso questo momento, fa la rivoluzione: in questo momento, non prima, o sarebbe solo scomposta sommossa, facile da reprimere.
Questo, e non altra cosa, è il comunismo. Buonismo, carità, immigrazionismo eccetera non hanno nulla a che spartire con il pensiero maturo di Marx. Completiamo.

Preso il potere, il proletariato, ormai Stato proletario, organizza la produzione collettiva, e soddisfa ogni necessità. Detto ciò, anche Marx viene preso da ubriacatura alla Rousseau, e parla di anarchia universale, in cui tutti saranno buoni e bravi e belli, e non ci sarà bisogno di Stato.
Del resto, anche la sua tesi dell’implosione capitalistica venne meno già verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, quando Owen, e poi gli stessi industriali, cominciarono a pagare un po’ di più gli operai; i quali, un poco borbottando, un poco scioperando, un poco collaborando, deposero le fantasie sovversive; e, avendo bisogno di un paio di pantaloni, lo comprarono dalla stessa fabbrica in cui andavano a lavorare.

Ulderico Nisticò