Sentenza storica: Bastano due settimane di “Corteggiamento sgradito” per la condanna, anche senza insulti o minacce nelle chat
ROMA – La Corte di Cassazione ha emesso una sentenza che segna un precedente importante in materia di molestie, stabilendo che un comportamento assillante e non gradito, protratto anche per un periodo limitato come quindici giorni, può integrare il reato di molestie, anche se i messaggi scambiati non contengono minacce o insulti espliciti.
La Suprema Corte ha chiarito che, ai fini della configurabilità del reato di “molestia o disturbo alle persone” (art. 660 c.p.), ciò che rileva non è tanto il contenuto esatto delle comunicazioni (chat, SMS, messaggi su app), quanto la “petulanza” o il “biasimevole motivo” della condotta, che finisce per interferire in modo sgradevole nella sfera della quiete e della libertà della vittima.
Il principio della “Petulanza”
Secondo la ricostruzione giurisprudenziale, il concetto di “petulanza” non si esaurisce nell’offesa o nella minaccia, ma si traduce in un modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente.
È questo elemento, il carattere invasivo e continuato dell’azione, a trasformare un tentativo, seppur maldestro, di riallacciare un rapporto in un’azione penalmente rilevante.
In sostanza, i giudici hanno ribadito che l’interesse tutelato dalla norma è la pubblica tranquillità, offesa tramite il disturbo alla quiete privata. L’attenzione si sposta quindi sulla vittima e sull’impatto che tale condotta ripetuta ha sulla sua tranquillità e libertà, a prescindere dal fatto che i messaggi contengano o meno espressioni aggressive.
Non serve il blocco del contatto
Un altro punto fondamentale, ribadito in precedenti pronunce e confermato dalla linea interpretativa, è che l’integrazione del reato sussiste anche se la persona molestata non ha adottato misure per bloccare il mittente o interrompere la comunicazione.
Il reato si configura per l’invasività intrinseca del mezzo utilizzato per raggiungere il destinatario e non per la possibilità della vittima di difendersi da sé.
Questa sentenza lancia un chiaro monito a non sottovalutare l’insistenza nelle comunicazioni, soprattutto nel contesto di rapporti conclusi. L’invio di messaggi, seppur apparentemente innocui o semplicemente volti a riprendere un contatto, può diventare un reato nel momento in cui supera il limite della normale comunicazione e si trasforma in un disturbo sistematico della quiete altrui.