“Un automobile lanciato in corsa è più bello della Vittoria di Samotracia”, inneggiava, alla testa dei futuristi, Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944); e allora “automobile” era maschile; e, cosa più notevole che non sia la grammatica, il massimo di velocità dei primi del Novecento era, tiratissima, 70 km/h. e le auto erano rarissime, e nemmeno dico un lusso, dico un gioco per aristocratici con tanto di chauffeur in divisa.
Le prime utilitarie più popolari compaiono negli anni 1930: in Italia, la Balilla, detta poi Topolino, alla portata anche di famiglie di media borghesia, e, a rate, di piccola; ma erano ancora considerate mezzo di trasporto diciamo di secondo livello, mentre un viaggio impegnativo si percorreva in treno. E i treni erano tanti e frequentissimi; penso che ancora qualche mio coetaneo si ricordi del passaggio a livello di Soverato sempre chiuso, e convogli merci e passeggeri ogni quarto d’ora.
Il rapporto tra mezzo pubblico e mezzo privato si rovesciò a partire dagli anni 1960, con un improvviso sviluppo della motorizzazione personale, individuale, favorita da una politica esplicitamente volta all’uso dell’automobile, con prezzi, allora, abbastanza contenuti e una rete di autostrade.
Attenti, autostrade; mentre molte strade statali restavano quelle del Ventennio, com’è il caso della nostra 106: ottima strada e ponti monumentali eterni, però non pensata certo per migliaia di auto ogni giorno. A proposito, la Trasversale, che aspettiamo da 60 anni, zoppica tra rinvii di cause e promesse campate in aria.
In un modo o nell’altro, l’Italia dal 1960 si riempì di auto, e costruite, di fatto, in regime di monopolio della FIAT, che assorbì le aziende minori, alcune delle quali erano di ottima qualità ma di nicchia. Il monopolio FIAT fece degli Agnelli un potere mica tanto occulto, che riceveva dalla politica tutti i favori che voleva; bastava minacciare di chiudere una fabbrica del Sud, scatenando conflitti sociali: e giù altri favori. Favori che gli Agnelli ricambiavano assumendo ingegneri raccomandati, donde mettere sul mercato modelli patacche.
Oggi, alla fine del 2024, l’auto è in crisi dovunque, se persino la potente tedesca Volkswagen dichiara gravissime difficoltà. La FIAT era divenuta una sigla impronunciabile in italiano e con sede in Olanda; oggi si chiama Stellantis e anche di nuovo FIAT, però non vende. E non vende perché la gente non compra un’auto se non è proprio necessario; e pesano, più del costo iniziale, i costi di gestione e le assicurazioni. A proposito, in Calabria e altre aree meridionali l’assicurazione è molto più cara che altrove; e non perché ci siano più incidenti, ma perché tanti sono i mezzi che viaggiano senza copertura. Prendiamo provvedimenti?
La crisi dell’auto è dunque un fenomeno sociale. Esempio: io ho un’auto che, in quasi tre anni di vita, ha raggiunto la bellezza di 20.000 km, io che, appena qualche annetto fa, ne contavo 20.000 al mese minimo. A parte qualche viaggio in paesi interni irraggiungibili altrimenti, uso l’autobus o il treno o l’aereo. E, da quel che sento, non sono certo solo io a comportarmi così.
Serve, secondo me, un ripensamento del sistema dei trasporti, potenziando, o a volte creando, mezzi pubblici, e tornando alla funzione dell’auto degli anni 1930, quella di mezzo secondario. Sempre secondo me, l’abbandono dell’auto è una tendenza inarrestabile: sarebbe meglio pensarci prima, e programmare seriamente una politica europea e italiana della mobilità.
Se è lecito paragonare le cose grandi con le piccole, da Soverato vanno allontanate il più possibile le auto, attraverso i parcheggi a pagamento, e le navette. Aspettiamo l’estate del 2025, o plumas y palabras el viento las lleva?
Ulderico Nisticò