Tra i campi ritornerò beato…


Publio Virgilio Marone

Publio Virgilio Marone

…o almeno così canta Alfredo nella Traviata. “O fortunati… agricolae”, aveva insegnato Virgilio, che, raccontano, aveva una “facies rusticana”. E oggi sentiamo che il ministro signora Bellanova, che in questo governo di arrangiati e arruffoni mi pare la meno peggio proprio per il suo aspetto nazionalpopolare, c’informa che mancano proprio gli agricoltori; e che i raccolti primaverili ed estivi sono prossimi ad andare a male.

 In questi giorni, forse è colpa del virus. Negli ultimi cinquant’anni, di una precisa ideologia borghese e intellettualistica, di evidente origine francese, più esattamente parigina: il “citoyen” è colto, moderno, laico, scolarizzato e felice; il “paysan” è rozzo, ignorante, infelice, e perciò – sottolineo il perciò – tradizionalista e cattolico. E siccome la nostra cultura ufficiale, dal XVIII secolo, è infranciosata (in dialetto, vuol dire una cosa che non vi spiego), tutti a ripetere che ci vogliono più cittadini e meno contadini. Poi, quando servono, gridiamo Aiuto aiuto!

 L’apoteosi della città e disprezzo della campagna sono l’essenza delle rovinose Lettere di don Milani, che però ogni professoressina fa imparare a memoria ai figli dei contadini; i quali, sulla scorta di quelle memorizzate Lettere, corrono a diventare avvocati; o, con un poco di fortuna e di dolo, funzionari della Regione; e parlano il piatto italiese dei libri di testo.

 Fu così che l’agricoltura venne meno, soprattutto in alcune aree, tra cui, manco a dirlo, la Calabria. Qui i campi abbandonati si mostrano in tutta evidenza, con sterpi e alberi morenti. Ne deriva la desertificazione di paesi; e la crescente importazione di prodotti agricoli, invece di consumarli es esportarli.

 Urge un’inversione di mentalità. Vero, ma non con parole, le quali sono buone a produrre romanzi e versi, non certo grano e patate. Servono concrete operazioni di recupero e miglioramento dell’agricoltura.

 Se fossi io l’assessore, ordinerei immediatamente un’indagine di quelle genuine: quanta terra calabrese viene effettivamente utilizzata. Tale indagine si può fare solo sporcandosi le scarpe tra le zolle, non leggendo documenti ufficiali, generalmente patacche.

 Farei stendere un Piano regolatore dell’agricoltura, con questa finalità: se una zona è vocata a ravanelli, la Regione conceda interventi solo ai ravanelli; se il proprietario vuole coltivare ananas del Guatemala, è liberissimo, però non vede un centesimo di contributo.

 Sempre che i ravanelli siano di qualità e abbiano un’utilizzazione; e non siano il vecchio trucco di produrre robaccia, farsela pagare, e poi lasciarla al macero.

 Il proprietario? Magari ce ne fosse uno. Gli appezzamenti, soprattutto quelli abbandonati, di proprietari (almeno di fatto, quasi mai con denunzia di successione) ne hanno sei: non scherzo, parlo di una particella catastale desertissima a me contigua, estesa… tenetevi forte… centonovanta metri quadri. Se io volesse acquistare – ridete – tale ben di Dio, dovrei convocare chissà quante persone e chissà da dove; e pagare un euro ciascuno ed è pure assai, ma un botto di soldi di notaio.

 Serve un’operazione rivoluz… no, reazionaria, che amo chiamare ESPROPRIO PROPRIETARIO. Ovvero, se mi serve quel pezzetto per coltivarlo davvero, io metto 500 € in un libretto postale, e un avviso all’albo pretorio: gli aventi causa, vengano a prendersi ciascuno la loro microscopica parte, rilasciando ricevuta; dopo cinque anni, mi ripiglio l’avanzato.

 So bene che si scatenerebbero notai, avvocati e giudici, in testa l’immancabile TAR del Lazio per non dire della Corte Costituzionale. E allora, aggiriamo l’ostacolo: niente esproprio, ma fitto obbligatorio delle aree abbandonate, a prezzo simbolico, giusto per riconoscere la proprietà.

 Per produrre, infatti, serve la terra: mezzo ettaro, per le rose; mille minimo, per il grano…

 Una volta prodotte delle derrate, bisogna venderle, sia brute sia trasformate, perciò con lavoro di piccole ed efficienti aziende ad alto valore aggiunto.

 Tutto questo comporterà una rivol… no, una reazione sociale, un cambio radicale di pensiero e di rapporti umani.  Cominciamo da scuole agrarie: io non ho niente contro l’aoristo secondo passivo e il più che perfetto congiuntivo, che negli anni mi hanno dato da vivere; e, pur ignorandola, rispetto la trigonometria sferica: però non sta scritto da nessuna parte che ci serve un popolo di troppo spesso finti grecisti e latinisti e matematici, quando la Bellanova piange che ci mancano i contadini.

Ulderico Nisticò