“La morte di Virginia Martinis de Julio” (Armando editore) è un fascinoso romanzo di Vincenzo Bisceglia, di quelli da leggere almeno tre volte: la prima alla ricerca di una trama; la seconda per gustalo; la terza, e forse la definitiva, per coglierne, come diremo, gli artifici letterari.
La trama è piuttosto un filo conduttore, proprio esattamente una “trama” come nelle antiche tessiture, che poi si ammiravano, a dire il vero, per tutt’altri motivi. È una storia calabrese, però potrebbe essere metafora di tanti fenomeni sociali, quelli che, per capirci in sintesi, hanno comportato un’inavvertita fine dei vecchi ceti nobiliari, e non attraverso sommosse o guerre, bensì con modi più tranquilli e inoffensivi, eppure ancora più rivoluzionari: la serpeggiante commistione e di intrecciati interessi, e di matrimoni qualche volta davvero d’amore, o se no di comodo, o per caso.
Ne derivò un ceto… no, direi solo una categoria nuova, che ereditava le non molte virtù dei nobili con le abilità dei nipoti e pronipoti dei popolani; ma sempre cercando, e non ben trovando, un’identità. È questo ircocervo sociale, la vera trama del romanzo: una complessa sagra familiare di più generazioni, ognuna delle quali rappresenta un’epoca della nostra recente storia. Com’è vero che ogni calabrese genuino ha tra i suoi avi almeno un brigante e un barone… quando, aggiungiamo noi, non erano la stessa persona!
Compaiono, scompaiono, ritornano figure maggiori, e anche figure minori che, quasi da teatro shakespeariano, si ritagliano un fulminante momento di protagonismo; e ognuna delle quali incuriosisce tanto da far desiderare che possono meritare un romanzo a sé.
Forse il gusto della lettura del lavoro di Bisceglie è come abbia dipinto caratteri, vizi, storie con radici antiche nei fatti contemporanei… E un piccolo mondo di civiltà contadina e, per quel che ne resta, feudale, che però, con sapienti pennellate, si apre anche al resto d’Italia, e a terre geograficamente lontane quali le Americhe; e, cosa ancora più lontana, a ben diverse condizioni personali e scelte di vita, che, di caso in caso, possono dirsi di progresso e di regresso, o le due cose ugualmente.
E sono le condizioni di una modernità che, nel Meridione, è arrivata all’improvviso e troppo rapida perché la potessimo lentamente assimilare; e che cozza contro quelli che ci illudiamo, i Meridionali, siano anticaglie e residui del passato, eppure molto spesso si rivelano essere ancora radicate nella mentalità di tutti, anche dei dotti. Come non poteva non essere, al tutto si aggiunge la politica, che si rivela più o meno lineare, a volte meno.
Non siamo però di fronte a uno studio di antropologia e di sociologia, sebbene entrambe non manchino; è un lavoro di letteratura, e che un’opera sia riuscita o meno non si giudica dal contenuto ma dalla forma; e la forma, dai particolari.
Sotto questo aspetto, si affaccia, e regge, il paragone con un libro celebre, o forse più celebre che letto con acribia critica: il Gattopardo, i cui pregi artistici devono essere colti tra le pieghe della scrittura. Così la morte di Virginia Martinis de Julio, e tutti i suoi casi e quelli dei tanti che la circondano, bisogna saperli riscontrare in note di quasi casuale ed elegante ironia.
Appena qualche esempio: la RSA il cui motto è l’ambiguo “qui troverete il meritato riposo”; le “varie e strampalate circostanze”; “gli occhietti dei gamberi che sembravano fissarlo con compatimento”, e via con tantissime di queste perle, che bisogna saper ammirare, e a volte costringono il lettore a fermarsi e riflettere, e non solo a sorridere.
La lingua di Vincenzo Bisceglie è fluente ed elegante; anche se non raramente si lascia scappare qualche espressivo termine dialettale, utilizzato come elemento di realismo.
Davvero un romanzo da leggere tre volte.
Ulderico Nisticò