Diagnosi ultra precoce del cancro, dall’Umg di Catanzaro una nuova via


«Abbiamo aperto una finestra sulla fase pretumorale, individuando il momento in cui, potenzialmente, è possibile la reversibilità del tumore». Lo racconta al Corriere l’oncologa Natalia Malara. La ricerca che ha guidato è stata pubblicata su Nature (Nature Precision Oncology), la «bibbia» della comunità scientifica internazionale. Lei spiega: «Fra 36 volontari, malati di tumore o sani, siamo riusciti a individuare dei cosiddetti “intermedi”, sani clinicamente, ma che abbiamo riconosciuto come non esattamente tali e che hanno poi sviluppato una patologia tumorale in uno o due anni».

Malara, all’università Magna Grecia di Catanzaro, continua a fare ricerca per confermare i risultati. L’orizzonte è «personalizzare la medicina preventiva, potendo indirizzare i pazienti a rischio verso terapie antiossidanti, e non solo, che possano invertire la progressione del tumore». Il progetto l’ha avviato lei, nel 2009, coinvolgendo via via altri ricercatori, quasi tutti italiani, delle università di Parma, Napoli, Vienna e il professor Enzo Di Fabrizio dell’università Kaust dell’Arabia Saudita.

Già all’epoca aveva cinque figlie, che oggi hanno fra i dieci e i 23 anni. Delle più grandi, due studiano Medicina, una Legge, l’altra Ingegneria. Occuparsi di loro non le ha impedito di portare avanti le sue intuizioni e la sua attività di medico e di ricercatrice. «Il lavoro, se sei testarda e inqualificabilmente matta come me, lo recuperi. Io ho lavorato fino all’ottavo mese e ho allattato lavorando. Sentivo la forza della maternità come condizione stupenda per una donna », dice, «l’effetto collaterale dell’oncologia è che o ti appassiona alla vita o ti frena». Lei non si è fatta frenare, anche perché l’indole era travolgente fin da bambina.

Malara, oggi 48 anni, nata a Messina, ha iniziato le elementari a quattro anni, l’università a 16 e mezzo. «Quando ho vinto l’unico posto disponibile per la specializzazione alla Cattolica di Roma, in facoltà, mi chiamavano “la papessa”». La credevano tutti figlia di un barone della medicina, non certo di un matematico-ingegnere e di una farmacista. Lei ne ride: «Qui in Italia, se uno eccelle, va così. Fu una cosa simpatica che mi portai dietro per un po’ e fu un incentivo a dimostrare il mio valore sul campo». Aveva, ai tempi, già due figlie, che stavano con lei a Roma mentre il marito, ingegnere, la raggiungeva per il fine settimana. «Mi ha sempre lasciata libera», racconta lei, «sono poi andata in Calabria dove già lavorava lui, dando ascolto a mio padre che mi ha sempre detto “prima la famiglia” e di questo lo devo ringraziare, tornassi indietro, lo rifarei. La dimensione familiare è sempre stata un arricchimento. Io, la mattina, preparo il pranzo per le ragazze e faccio anche il pane, sono i profumi della casa che fanno la famiglia e ti cambiano la giornata».

Decisivo per la sua attività di ricerca è stato il fatto che l’università di Catanzaro, retta da Giovanbattista De Sarro, ospita in ospedale, raro caso in Europa, un laboratorio di nanotecnologia, il BioNem, coordinato dal professor Patrizio Candeloro. Malara, da medico, si è intrufolata tra i fisici e i chimici («sono stata la prima e sono tuttora l’unica», racconta). È stato lì, che, trafficando con vetrini, protoni, aldeidi e altro, mette insieme il protocollo di medicina transazionale avanzata da applicare a un dispositivo elettrochimico che promette una diagnosi ultraprecoce dei tumori con una «biopsia liquida», un esame del sangue poi messo in coltura per circa 14 giorni.

L’intuizione le è venuta studiando il caso di un diciassettenne con una lesione mesencefalica: «Per capire se era maligna o benigna, serviva una biopsia invasiva, pungendo una zona del cranio ricca di centri nervosi che controllano il respiro e le attività vegetativa e motoria, era troppo rischioso», ricorda. A lei però, venne l’idea di analizzarne il sangue in modo diverso. Spiega: «In un campione da 5 ml ci sono moltissime cellule tumorali, ma la proporzione rispetto alle altre cellule è paragonabile al rapporto esistente fra la torre più alta di Shanghai e la distanza Terra-Sole. Però, pensai che, riuscendo a mettere in coltura solo quelle tumorali, avrei dato loro evidenza. Devo ringraziare per la fiducia che mi ha concesso il professor Giuseppe Viglietto, che dirige il Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica». Il dispositivo è stato costruito interamente all’ospedale di Germaneto. Lei lo definisce il frutto «di un’ingegneria e ingegnosità tipicamente italiane». (corriere.it)


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