Dialetto e italiano


 Potete stare certissimi che, a casa Leopardi, il colto conte Monaldo, la non tanto colta però accortissima amministratrice contessa Adelaide, gli istruiti figli e la figlia Paolina raffinata francesista, e il contino Giacomo coltissimo, e per sua disgrazia anche eruditissimo, a tavola parlavano marchigiano. E il Manzoni, a parte il francese, le rare volte che usciva dalla magione, se voleva conversare con qualcuno doveva farlo in meneghino. E Pietro Bembo, ferreo teorizzatore della lingua italiana, a Venezia chiacchierava in veneziano e non certo in petrarchesco.

 Niccolò Machiavelli, fiorentino, s’ispira al compaesano Alighieri di “le opere mie non furono leonine ma di volpe”, però, scrivendo in fiorentino dialettale e di tutti i giorni, spiega che il principe deve “stare in sulla golpe e in sul lione”. La differenza è abissale, sul piano linguistico. “A gurpi”, diciamo noi.

 Solo i Siciliani pensano che Federico II e Jacopo da Lentini conversassero a colpi di “Beddha Matri Santissima” e “m******”, e che quindi le poesie della Scuola siciliana fossero scritte in siciliano; il che non è vero se non per certi aspetti fonetici di base. Come il sullodato Alighieri non si sognò mai minimamente di pensare di scrivere la Commedia in fiorentino con tanto di “hoda” e roba del genere. Tranquilli, che nemmeno Cicerone, famoso per le sue fastidiose battute di spirito, parlava lo stesso latino in senato e a cena.

 Ora vi faccio un esempio che sicuramente turberà molti miei amici. Vittorio Emanuele II parlava certo più piemontese che italiano o francese; e in piemontese avvennero alcuni dei famosi litigi con Cavour. Ciò non impedì al conte e al re di avere una visione europea della questione italiana, utilizzando, come tutti i politici dell’Ottocento nel mondo occidentale fino a metà Novecento, il francese; e pesando le parole in italiano, inteso come strumento della politica.

 Il guaio dei Borbone di Napoli non era che parlassero “accussì, napulitano”, come canta Ferdinando Russo con remota vana nostalgia; fu che pensavano in napoletano, e la loro visione dell’universo andava da Napoli a Caserta, con qualche gita a Gaeta. Capite dove sta il limite che condusse il Regno a repentino crollo?

 È come se il Leopardi avesse voluto cantare in dialetto di Recanati le sublimi profondità esistenziali del pastore dell’Asia; o in brianzolo il duello verbale di padre Cristoforo e don Rodrigo, il Manzoni; o Dante il saluto a Beatrice: “oh, home va, monna Bisce; e mi saluti ‘l su’ sposo”. Sarebbe stato come quando, ai tempi del mio venerato Liceo a Soverato, dicevamo “ne canes quidem” per “mancu li cani”, e sorvolo sulle parolacce in greco e latino, contentandomi, per polilalia, di “fire dog’s”, “focu de’ cani”.

 Ma il napoletano… e certo, quello della grande canzone che s’impose nel mondo: O sole mio, del 1899; Dicitincelle vuje del 1930; dove non c’è una virgola in italiano, però erano più note di qualsiasi italica poesia. Ma tra quei testi e certo dialettaccio dei bassi oggi di moda c’è la stessa abissale differenza che passa tra chiacchierare del più e del meno, ed esprimere la complessità del pensiero del Vico. Il quale non solo era di Napoli, ma pure di zone poco raffinate, però scriveva in latino e in italiano, e non disse “vace e tuorna” per “corsi e ricorsi”; che, approfitto, sono le modificazioni della mente umana, non che la storia si ripete, come pensa qualcuno.

 Riassunto: i dialetti sono una bella cosa, e dovremmo studiarli prima che scompaiano, e magari parlarli. Già, se mi trovate qualcuno che dica, in Valle d’Ancinale, “uòttu” oppure “ùottu”, o “viècchiu” o “vìecchiu”; e non, con fonetica meno ardua, “ottu, vecchiu”.

 Ora non mi venite a dire che parlare dialetto è identità, perché la parola identità in dialetto non esiste, e ve la dovete prestare dall’italiano.

 Quanto precede vale anche per Sanremo.

Ulderico Nisticò