Nel Vallone di Rovito ( Cosenza) il 25 luglio 1844 veniva eseguita la condanna a morte dei fratelli Emilio ed Attilio Bandiera, fucilati assieme ad altri compagni a seguito dello sventurato sbarco nei pressi di Crotone e relativo tentativo di fare insorgere la Calabria contro il legittimo governo borbonico. Sono 171 anni che l’impresa dei Bandiera viene fatta passare come valorosa ed eroica ma in realtà fu un’azione contro ogni logica e buon senso, sconsigliata da tutti i loro amici e portata atermine esclusivamente per una inguaribile vanagloria, anche a costo del sacrificio della loro vita e di quella dei compagni, pur di lasciare una traccia nella storia, come la lumachella di Trilussa. Lo stesso Mazzini, infatti, li esortò sino all’ultimo a desistere dall’impresa con ripetute lettere così come fece il suo rappresentante a Malta, Nicola Fabrizi, rivoluzionario modenese, che arrivò a scrivere: “…apparirà in un senso di frenetica esigenza di soddisfazione vostra tutta personale la noncuranza dello scopo, che unicamente comprometterete….” (lettera ad Attilio Bandiera del 15 maggio 1844). E solo quando si trovarono di fronte al tribunale militare, i Bandiera compresero l’errore commesso e Attilio (il più grande dei due fratelli) cercò di porvi rimedio con delle suppliche al Re Ferdinando II e a Del Carretto, ministro della Polizia Generale, in cui ripetutamente scongiurava il sovrano a credere alla loro buona fede tesa non ad abbattere il Regno ma anzi a dare manforte al popolo di Calabria perché si erano avute notizie che la Sacra Maestà fosse pronta, pur se velatamente, “(…) a compiere il desiderio di tanti secoli a ridonare all’Italia divisa ed avvilita l’antica sua gloria e possanza….. e perché si diceva che (…) i moti di Calabria erano dalla Vostra Sacra Maestà tacitamente secondati per cominciare da essi la gloria che, secondo ogni apparenza, dal Cielo è riservata…” (Lettera del 22 giugno 1844, San Giovanni in Fiore). Lo stesso 22 giugno, Attilio Bandiera inviava un’altra lettera a Del Carretto in cui dichiarava che “Condotti dalla fama generalmente diffusa che S.M. Ferdinando II, re delle Due Sicilie, cominciava ad agire in senso dell’unità d’Italia e della maggiore sua gloria e potenza, noi qui con improvvido consiglio frettolosamente ci riducemmo; ma il crudele disinganno non fu tardo a comparire e noi che animati dai migliori sentimenti di zelo ed ammirazione verso la Sacra Maestà eravamo qui venuti per vivere e morire sotto i gloriosi suoi stendardi (…)”. La missiva continuava con parole supplichevoli e una richiesta d’intercessione presso il re perché “(…) è così dolce operare per il bene! Non ispezzate i rami abbattuti!Pensate alla benedizione di tanti ed all’ammirazione di tutti (…)”. Dello stesso tenore la seconda lettera a Ferdinando II, questa volta da Cosenza e datata 24 giugno 1844, in cui il Bandiera deplorava la mancata consegna della precedente supplica al re, al quale dichiarava: “(…) Signore Augusto! Per troppa credulità siamo caduti in moltissimi errori! (…)”, per poi riprendere quanto scritto in precedenza e paragonare il re di Napoli a un Padre che veglia sulla famiglia, “(…) minacciando qualche volta, mai punendo e sempre perdonando ed amando (…) ; e ancora: (…) Non impedite, o Sire Augusto, a noi sventurati di vivere e morire come avevamo immaginato per i desideri della Vostra Real Maestà (…).Grazie. Grazia!” L’ultima supplica di Attilio Bandiera è del 17 luglio 1844 dalle carceri di Cosenza, otto giorni prima dell’esecuzione, e in essa faceva un estremo tentativo per salvarsi la vita dichiarando alla Sacra Maestà di essere in possesso “(…) di segreti del più grave interesse che, nonché la tranquillità di tutta l’Italia, riguardano pure da vicino la personale preziosa sicurezza della Maestà Vostra (…). La lettera, molto breve, continuava affermando che questi segreti erano riferibili a potenze europee, che non si trattava di un diversivo per evitare la condanna a morte ma che egli non poteva affidare ad una lettera cose di vitale importanza per lo stesso re e che dunque doveva assolutamente parlare con lui medesimo o un suo strettissimo collaboratore. Le lettere sono tutte firmate da Attilio barone Bandiera servo umilissimo e devoto. Chi crederebbe, a questo punto, che la Sacra Real Maestà, il Sire Augusto, il futuro“Luigi XIV del regno d’Italia”, addirittura “la vivificata immagine d’Iddio in terra”, cui si rivolge supplice il Bandiera (che, è bene precisare, parlava in nome degli “…infelici compagni di sventura ansiosi di poter divenire sudditi fedelissimi…”), sino a qualche settimana prima per lo stesso Bandiera era un “villano spregevole”, un re che opprime e perseguita, che ha “riempito il nostro paese di vergogna ed obbrobrio”? Un tale cambiamento d’opinione ed ideali si può spiegare solo con la paura della morte, laddove si arrivi persino ad affermare di essere venuti nel Meridione per offrirsi “sentinelle perdute di quel Sovrano al quale avevamo dedicato ammirazione, fedeltà ed obbedienza illimitata…” per “vivere e morire sotto i gloriosi suoi stendardi ….pur non avendo il vantaggio di appartenere al Vostro regno”.
Adriano V. Pirillo