Una premessa storica: la follia – usiamo questa parola imprecisa – è antica quanto il mondo, e occupa le cronache dai tempi più antichi, e non poca parte della letteratura. Impazziscono, infatti, Ercole e Orlando e don Chisciotte e Amleto… L’eroe Bellerofonte, dopo anni di glorie e potere, cade in un’improvvisa depressione, e “vagava da solo, divorando il proprio cuore”.
E ciò sia detto per coloro i quali pensino – e ce ne sono – che la follia sia un fatto del mondo moderno. Però le notizie di questo tempo cominciano a configurarsi come un dilagante fenomeno sociale. L’ultimissimo è un caso esemplare: ingegnere, famiglia normale, uccide e si uccide. Ci sarà un motivo, ma è inutile cercare una causa ragionevole o che comunque abbia qualche carattere concreto e materiale: è palese trattarsi di una mente che funziona troppo e male, senza controllo da parte della coscienza. L’assassino si è suicidato, e se fosse vivo andrebbe rinchiuso a vita da qualche parte; ma il caso, e con esso molti altri casi di suicidi e omicidi e violenze richiedono analisi molto più profonde, e non dei singoli casi, ma di un pericolosissimo fenomeno sociale.
La violenza cieca è una malattia, quindi un caso di natura personale; che esploda, però, è anche un fatto di degrado ambientale, quando accade in zone per decenni abbandonate come Caivano. Quando però la violenza viene perpetrata a freddo, allora interviene la ragione. Sì, attenti, ho scritto proprio la ragione, che non è una cosa carina e sorridente come pensavano al tempi di Voltaire (“le sourir de la raison”), bensì può diventare un modo razionale, studiato, meditato di violenza: e, come mi pare ovvio, un modo molto più rovinoso di una rabbia che, come arriva, svanisce; e che, nella maggior parte dei casi, basterebbe mettere paura al birbaccione.
Per la violenza razionale, occorrono rimedi razionali. Il primo e più ovvio è che la si deve smettere con l’immotivato e bambinesco programma di vita noto come “diritto alla felicità”. La felicità è uno stato d’animo, generalmente di brevissima durata, e che non dipende minimamente dall’avere una bella macchina e tanti soldi e la spesa a carrello pieno, ma dal prendere gusto a queste cose: se no, anche Bellerofonte – eroe ricco potente glorioso – cade lo stesso in depressione come un poveraccio qualsiasi.
C’è una colpa della scuola, e in particolare di certi miei colleghi di lettere, i quali insegnano che la letteratura è “vera”, mentre per sua natura è un’estrapolazione paradigmatica, quindi una narrazione di casi eccezionali. Lo stesso per cinema e canzoni, che, per fare il loro mestiere, mostrano casi particolari; casi da romanzo e da film, mica modelli da seguire. Alla caccia della felicità, la depressione è sempre in agguato, quando la felicità non arriva: cioè nel 99,9% dei casi.
Il depresso o vive malissimo, o può diventare violento.
E dilaga anche una grave crisi di socialità. Vengono meno le aggregazioni naturali: parrocchie, confraternite, associazioni, amicizie… e i partiti sono un ricordo del secolo scorso. L’uomo è un vivente comunitario per natura, insegna Aristotele: l’isolamento è una patologia.
Ulderico Nisticò