Rapide riflessioni sui dialetti in generale, e su quello di Soverato


 Leggete il testo di “O sole mie”, del 1899, o “Dicentencelle vuie”, del 1930, e poi quello della canzone del recente Sanremo in napoletano dei bassi. Non sono solamente due lingue diverse, sono due mondi, due mentalità, due ambienti umani diametralmente opposti; e che non si capirebbero più di quanto potrebbero dialogare un cinese e un brasiliano. E io qui esprimo la mia preoccupazione che questo dialetto, questo sanremese e non quello elegante e colto, stia diventando, per molti giovani, una scelta di identità culturale e sociale, e che rischia di divenire anche politica. Colpa dell’italiano scolastico e televisivo, che è come l‘acqua distillata: incolore, inodore e insapore; e, peggio, politicamente corretto. Ridateci “grattar dov’è la rogna”, che non si trova in una bettola, ma in Paradiso, XVII, nel rude linguaggio militaresco di Cacciaguida. E non vi dico di Taide.

 Tutti amiamo il dialetto, quando ci pare, e anche io. A Soverato parliamo un dialetto fortemente italianizzato, per due motivi: assenza del vocabolario dell’agricoltura e dell’artigianato; semplificazione della fonetica rispetto a suoni come “ùottu”, “u-òttu” invece di “ottu”. È un dialetto che si è formato di recente, con la diffusa scolarizzazione; ancora qualche decennio fa, via Chiarello era detta “a ruga de’ setti lingui” per la presenza di parlanti siciliano catanese, amalfitano e calabrese dell’interno. In casi come il nostro, avvengono fenomeni noti come “koinè” dal greco comune, su base ateniese, che poi è quello che si studia a scuola e chiamano sbrigativamente il greco. Lo stesso accadde in Italia con il toscano, il quale s’impose per la sua fonetica molto simile al latino. Toscano “koinè”, perché il dialetto di Livorno è ancora più incomprensibile di quello di Sanremo 2024; e, nel fiorentino Machiavelli “golpe e lione” sono parole dialettali, anche imitando il fiorentino Dante, il quale però scrive “opere… leonine e… volpe”. Anche a Soverato diciamo “a gurpi”, però non ci sogneremmo di scrivere “la gorpa”.

 Eppure, avverte Dante, si può largamente attingere a tutti i dialetti d’Italia, anche per la letteratura. Quando arrivai a Pisa, la sola parola dialettale che proposi agli amici, e che però ebbe un grandissimo immediato successo, fu “verniticu”, dopo aver spiegato che viene da “hibernus”, e significa invernale, e, per estensione, difficile. Posso confessare parecchie espressioni dialettali che io, scrivendo, maschero per italiano. Banale, del resto: la famosissima Silvia che canta mentre tesse, è la stessa di un bellissimo frammento di Saffo, però non se ne è accorto mai quasi nessuno. La lingua di chiunque, del Leopardi come del modesto sottoscritto, deriva dalla memoria, greco e dialetto inclusi.

 E allora? E allora il problema non è se io usassi, per esempio, “sporìa” invece di semina; e anche, horresco referens, “baipassiamo” invece di andiamo avanti: tanto, computer è una parola anglosassone di evidentissima derivazione italiana medioevale, computo, dal tardo latino. Il problema è se si pensa in dialetto, come apparve a Sanremo, e se si afferma una visione della vita e del mondo limitata al nativo basso e già straniera al basso vicino non solo per parole ma per idea dell’esistenza; mentre “O sole mio” è palesissimo sentimento di portata universale, e che può essere reso in turco e in svedese e in arabo e in marziano.

 Ogni dialetto, se è veramente tale, è limitato in senso topografico. Oggi è raro sentirlo, ma ancora poco tempo fa quelli di Satriano (“sunnu e Saatreano”, o meglio “d’a Picocca”) si distinguevano nettamente da quelli di Davoli (“ennu e Rhavuli”), a due passi. Del resto, in vero dialetto si dovrebbe dire “a Marina” e “Suvaratu/i”. E sarebbe ora di studiare gli innumerevoli dialetti calabresi, prima che scompaiano del tutto, o vengano adulterati dall’italiese tv e dall’americano dei film. Ed è anzi già tardi, se ormai nessuno dice “khalona” per tartaruga; o, metaforicamente, per donna goffa e impacciata.

 Ogni dialetto è, e dev’essere molto limitato in senso culturale e sociale, ed esprime una visione del mondo necessariamente circoscritta e piccola e quotidiana. La parola “filosofu” non vuol dire uno che scruta l’essere e il divenire e i massimi sistemi e la metafisica cosmica; bensì significa o depresso, o isolato, o, più spesso, furbetto; non la si può dunque tradurre filosofo, parola che in italiano vuol dire tutt’altra cosa; e non posso dunque studiare in dialetto una Storia della filosofia.

 Detto questo, esiste in tutta Italia una valida letteratura dialettale. A onta dei sociologi della domenica, i suoi autori sono dotti e italofoni, o sensibilmente influenzati dall’italiano e dalla letteratura alta. Esempio, il celebre Mastro Bruno, il quale dichiara “iu poeta no’ su, ca scarpirhinu”, però invoca Apollo.

 C’è una poesia, più spesso una canzone dialettale che, direbbe il Vico, è “naturalmente poetica”; come lo sono tutti i proverbi e i modi di dire. Se io dico che uno “’nsiva”, cioè insiste fastidiosamente, deriva dal sego usato per varare o trarre a secco le imbarcazioni; e gli dirò “allasca”, vattene, da prendere il lasco. Attento però a “vent’e terra”, il ponente molto pericoloso per i pescatori di Soverato, quando andavano a vela. Ecco la poesia naturale, e tanto più poesia quanto meno uno sa di lasco e sego e rosa dei venti. Tranquilli, anche Omero non aveva la minima idea che “menin” fosse caso accusativo, però lo mise in accusativo lo stesso.

Ulderico Nisticò