Tre o quattro volte l’anno, 17 marzo (unificazione italiana), 2 giugno (festa della repubblica), 4 novembre (vittoria prima guerra mondiale) più qualche altra occasione, varia ed eventuale, assistiamo alla solita passerella di trinariciuti politici e politicanti che ci imbottiscono la testa con i loro “bla bla” sull’unità d’Italia, i moti risorgimentali, i padri della patria, l’eroe dei Due Mondi (o dei Due Milioni?) ecc., cui ormai non crede più nessuno se si eccettuano i libri di storia che ancora usano nelle nostre scuole. A proposito vorrei ricordare un emblematico episodio raccontato da Denis Mack Smith secondo una nota riportata da un giornalista svizzero. Nel 1848, scrive lo storico inglese, durante una cerimonia a Torino, la folla gridava “Viva Vittorio Emanuele! Viva l’Italia”! A quelle grida entusiastiche e vibranti amor patrio, si udì un uomo chiedere al suo vicino: “Ma chi è questa Italia?” L’altro rispose: “Deve essere la nuova moglie del re”. Evidentemente non dovevano essere molti nell’Ottocento gli italiani che conoscevano il significato della parola “Italia”. Poi venne l’unificazione della penisola, operata manu militari dalle truppe piemontesi-garibaldine a danno del Regno delle due Sicilie e dello Stato Pontificio che avrebbe dovuto trasformare l’Italia in uno Stato-nazione, ossia in un tutt’uno socio-politico-amministrativo: ma è stato davvero così? Per “Stato”, dicono i manuali, comunemente s’intende un soggetto istituzionale, fortemente politico, che governa e regolamenta la vita per mezzo delle leggi all’interno di un territorio delimitato. La Nazione, invece, è un’entità culturale o etnica che indica un insieme di persone che condividono lingua, cultura, tradizioni, usanze e costumi. Non mi pare che l’Italia, oggi, possa definirsi oggettivamente uno stato-nazione, anche se c’è coincidenza geografica, perché la situazione ideale necessaria che veda il popolo del tutto integrato e allineato con le azioni del governo è alquanto dubbia. Dove sta allora questa pretesa unità italiana? Forse in Valle d’Aosta, dove parlano più il francese che l’italiano e dove hanno sempre desiderato l’annessione alla Francia fino al definitivo rifiuto di De Gaulle che mise fine alla questione? O forse in Alto Adige dove parlano quasi tutti tedesco e si sentono più austriaci che italiani? E gli stessi Piemontesi non tengono a differenziarsi tra quanti abitano al di qua del fiume Tanaro e quelli al di là, come del resto fanno in Emilia-Romagna gli Emiliani e i Romagnoli, ossia quelli che abitano al di qua del Rubicone (il famoso fiume attraversato da Giulio Cesare con la nota frase Alea iacta est) e quelli dell’altra parte? Del resto si sentono diversi anche i Liguri di ponente da quelli del levante, così come in Umbria quelli del nord vorrebbero essere considerati marchigiani, tanto da parlare con accento assai simile. E’ noto poi il proverbio toscano che dice: meglio un morto in casa che un pisano all’uscio. In Friuli, e precisamente a Trieste, l’amministrazione comunale qualche anno fa ha autorizzato la ricollocazione in piazza dinanzi alla stazione ferroviaria della statua di Sissi, ossia di Elisabetta di Baviera (1837–1898), imperatrice d’Austria e moglie di Francesco Giuseppe I d’Austria. E chi non ricorda le numerose azioni terroristiche degli Schutzen che facevano saltare con la dinamite i tralicci elettrici? E sanno, poi, i nostri giovani e meno giovani che la famosa Caporetto, teatro della disastrosa ritirata italiana nella prima guerra mondiale, non è più italiana dal 1947 e che appartiene alla Slovenia? E tutto questo senza parlare della Lega Nord, apertamente tesa, se non a una vera e propria secessione, quanto meno ad una indipendenza economica-finanziaria dal resto d’Italia. Anche in Sicilia, la più grande nostra isola che ha cominciato a reclamare la sua indipendenza già dal marzo 1282, con la famosa guerra del Vespro contro i Francesi, vi sono diversi movimenti indipendentisti. Il 4 giugno dello scorso 2013, il Movimento di Liberazione Nazionale del Popolo Siciliano, ha depositato la richiesta di autodeterminazione della Sicilia a Ginevra, presso la sede Onu; questo significa che una parte rilevante dei Siciliani i quali, ricordiamo, chiamano l’Italia “il continente”, vuole essere uno stato indipendente. Chi può affermare, infine, che la Calabria, un tempo Le Calabrie (e già il plurale indica divisione) è davvero unita, se tutti parlano di una parte tirrenica e di una ionica che sono in condizioni socio-economiche-strutturali ben diverse una dall’altra? La fascia tirrenica ha ferrovia, autostrada, università, aeroporti e porti internazionali, ospedali, eccetera, ben avviati e attivi; quella ionica è praticamente isolata dal resto d’Italia, con una ferrovia rimasta a quella degli anni ’40, un aeroporto a singhiozzo, qualche porticciolo che serve a poco, una strada maledetta quale la famigerata statale 106, università zero (la Magna Grecia di Catanzaro-Germaneto è a due passi dalla fascia tirrenica), ospedali sempre più depotenziati, ecc. ecc. Dov’è, ancora, l’unità d’Italia se, sino a poco tempo fa, l’inno di Mameli era provvisorio e sconosciuto ai più e la bandiera italiana era praticamente appannaggio del solo Movimento Sociale, ossia della destra di Almirante, Fini e Storace, col simbolo della fiamma verde-bianco-rosso, e la cui esposizione in cortei, manifestazioni e congressi in genere, faceva gridare tutti “Fascisti”? Dove è questa Italia unita se è vero che in un sondaggio di qualche anno addietro, appena il 40% della popolazione si è detta orgogliosa di essere Italiani e solo il 25% ha affermato di essere disposto a dare qualcosa per la patria? Siamo onesti: col persistente divario economico e finanziario tra il sud e il nord, la pretesa unità asserita dal Risorgimento appare solo come uno slogan, uno spot pubblicitario. Prima della proditoria invasione piemontese-garibaldina, c’era davvero unità d’Italia: almeno in quella del Regno delle Due Sicilie, che rappresentava oltre la metà della penisola.
Adriano V. Pirillo