In questa sede, prendete le righe seguenti solo per quello che, per oggi, sono, una lezioncina di storia. Il regime fascista celebrava tre date, che davano anche il nome a tre della quattro Divisioni della Milizia: 3 gennaio [1925], le “leggi fascistissime” che instauravano la dittatura; il 28 ottobre [1922], la Marcia su Roma; e il 23 marzo, un secolo fa esatto. Ora vediamo cosa successe.
Era da poco finita la Grande guerra, con sostanziale insoddisfazione dei nazionalisti per le questioni irrisolte dei confini orientali; e con generale stato d’animo di protesta per le difficili condizioni economiche, che colpivano i ceti operai e la piccola borghesia. I governi liberali, che salivano e cadevano ogni pochi mesi, si rivelavano sempre più incapaci di capire e risolvere i problemi della Nazione; e sembrava l’ora della sinistra, allora rappresentata dal Partito Socialista.
Un piccolo gruppo di ex combattenti si riunì, convocato da Benito Mussolini, nella piazza San Sepolcro di Milano, e fondò i Fasci di combattimento, nucleo della futura storia; ma in quel momento quasi insignificanti. Alcune osservazioni:
– la parola “fasci” aveva, ancora, solamente il significato di alleanza, intesa, sul modello dei Fasci siciliani del secolo precedente; sarà dopo la fusione con i Nazionalisti (1921) che, per analogia fonetica, assunse il significato di riferimento alla romanità: i fasci di verghe e scure erano il simbolo dell’autorità dei due consoli, dodici a testa; e, quando veniva nominato il dittatore, ventiquattro; da allora, nel linguaggio del regime, divennero sinonimi e fascista e littorio;
– le tesi dei Fasci del 1919 erano alquanto venate di ispirazione repubblicana e democratica in senso mazziniano;
– il gruppo era eterogeneo, e ne fecero parte anche uomini che avrebbero poi preso tutt’altra strada, come Pietro Nenni e Arturo Toscanini;
– quelli che rimasero fascisti, saranno chiamati i Sansepolcristi, e considerati una sorta di eroi fondatori, e “della prima ora”.
Gli esordi, tuttavia, furono pessimi: alle elezioni del novembre 1919, i Fasci, presenti solo a Milano, ottennero risultati insignificanti. I socialisti divenivano in Italia di maggioranza relativa, anche se, divisi in correnti ed eternamente indecisi tra riformismo e rivoluzione, si rivelarono incapaci di capitalizzare il successo, e farne una forza politica di governo.
La Russia era diventata comunista, e agitazioni “spartachiste” avevano colpito la Germania. La borghesia serrò i ranghi.
Intanto, i Fasci crescevano tra gli ex combattenti e, per le ragioni suddette, la borghesia; finché non accadde un fatto di alto valore emblematico, che gli operai della Dalmine di Bergamo, occupando la fabbrica per protesta contro la proprietà, innalzarono non il vessillo rosso, ma la bandiera tricolore. Aderivano così alla sintesi mussoliniana di nazionale e sociale; e, implicitamente, al concetto fascista, ma che dovrebbe essere banale: che la giustizia sociale si può ottenere solo distribuendo quello che c’è, e quello che c’è non esiste in natura, ma dev’essere prodotto attraverso il lavoro intelligente ed organizzato, e tutelato dallo Stato.
Era l’inizio della crisi della sinistra e delle sue belle e fallimentari utopie, e, nel 1921, gli elementi politicamente e culturalmente migliori abbandonarono il Partito Socialista, e fondarono il Partito Comunista d’Italia: Gramsci, Bordiga, Bombacci. Bombacci, divenuto fascista, sarà fucilato a Dongo.
Moltissimi operai di origine socialista aderirono ai Fasci, intanto, fusi con i Nazionalisti, divenuti Partito Nazionale Fascista (PNF); il primo segretario, Michele Bianchi, di Belmonte Calabro. Alle elezioni del 1921, il PNF ottenne 35 deputati.
Molto più forte la presenza dei Fasci nella società civile. Si scatenarono scontri di piazza, nell’inerzia dei governi. Alla fine, si conteranno 400 morti da entrambe le parti.
Nell’estate del 1922, si sparse la voce che i liberali offrivano al PNF quattro ministeri. Siccome c’è sempre in agguato qualche saltafosso e furbetto della domenica tipo Alleanza Nazionale, alcuni fascisti ci stavano cascando al volo. Bianchi impose la linea dura, e, con l’atto simbolico della Marcia su Roma, Mussolini divenne presidente del Consiglio, con il voto favorevole di liberali e popolari, i quali, veri geni della politica, erano seriamente convinti di poter usare Mussolini e poi licenziarlo: che aquile!
Il resto, un’altra volta.
Ulderico Nisticò