Cibo e religione… casus belli


articoliutenti1Dalla notte dei tempi ad oggi, sia per le comunità primitive sia per quelle evolute, la religione e il cibo hanno costituito il fine principale del genere umano, essendo l’una un’esigenza indissolubile e necessaria per il bisogno di spiritualità dell’uomo, e l’altro il “carburante” indispensabile all’umanità proprio perché mortale: per il raggiungimento e il possesso di entrambi, ossia del benessere fisico e di quello spirituale sono scoppiate innumerevoli guerre e morte centinaia di milioni di persone. Senza dubbio la ricerca del cibo è stata il “primum movens” d’ogni fatto storico che ha coinvolto i popoli sin dai primordi, spingendoli sempre verso la strada della ricerca, della conoscenza, del progresso, e rendendoli più dinamici ed industriosi, portandoli verso la civiltà, e così appagare la propria fame; ma, si sa, la natura umana è perennemente insoddisfatta, e perciò essa fame, proprio perché tale, non cessa mai e riprende stimoli per andare avanti, per superarsi, senza guardare chi, ad esempio, si accontenterebbe di una semplice scodella di riso o di fagioli. Il desiderio del sacro e della pietà ha mosso i popoli e rovesciato imperi in ogni parte del globo, sia che professassero religioni primitive ed elementari sia complesse e profonde, poiché tutte avevano un legame con il cibo e coinvolgevano divinità e fonti di procacciamento dello stesso; d’altra parte, le più antiche caste che componevano la collettività umana erano quelle dei guerrieri e dei sacerdoti, ossia di coloro che cercavano il cibo con le armi e l’aggressione e di coloro che lo volevano anche per procurarsi privilegi ed onori servendosene nei riti sacri. Gli studiosi sono concordi generalmente sull’esistenza di uno stretto nesso tra l’essenza materiale e quella religiosa che accomuna la storia di tutti i popoli, primitivi e no, dell’Africa, dell’Asia, dell’Europa, delle Americhe; soprattutto la storia ebraica rivela come nessun’altra il legame tra la parola di Dio e il cibo, il benessere rappresentato dalla Terra Promessa, dove il popolo eletto poteva contare su ogni abbondanza, dove “scorreva latte e miele”. Che dire, poi, della religione cattolica che considera un suo cardine la sacralità del cibo, il pane e il vino, nel mistero dell’Eucaristia? E’ sintomatico il racconto biblico del peccato dei nostri progenitori nell’Eden, centrato sul cibo; l’uomo e la donna mangiano qualcosa che non era stato loro concesso, il frutto proibito, e perdono, con la grazia divina, la condizione di beatitudine e certezza di un cibo che in avvenire gli costerà sangue e sudore: mangiare quella mela significò, in un estremo anelito di libertà, ribellarsi e disconoscere la protezione di colui al quale dovevano tutto. Il nutrimento è la vita per l’uomo e tutti gli altri animali sono stati creati per servire l’umanità sia da vivi col lavoro, sia da morti come cibo; nelle antiche scritture si legge: “Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche…” (Dal II libro di Qoélet, 24-25).
L’eroe artefice della caduta di Troia, considerato da tutti un esempio da imitare in questo terzo millennio, l’Ulisse dantesco del “seguir virtute e canoscenza”, che per la sua curiosità girovagò per anni su mari e terre sconosciute, era quasi ossessionato nel suo peregrinare da un impulso trofico; dice, infatti, Omero nell’Odissea che, ogni qual volta giungeva in una nuova terra, mandava esploratori per accertarsi se “vi erano uomini che mangiavano pane”. Non aveva comunque tutti i torti il figlio di Laerte a preoccuparsi giacché il cibo e la fame furono causa di guai a non finire per lui ed i suoi compagni. Tanto è vero che, giunti tra i Lotofagi, spinti dalla fame mangiano il dolce cibo floreale e perdono memoria e volontà; alla ricerca di cibo nel paese dei Lestrigoni, diventano, essi stessi, pasto degli abitanti cannibali; il peggio succede agli sventurati greci nella terra dei Ciclopi, dove il mostro Polifemo, che “non ara né coltiva i campi” e mangia solo formaggio e carne, preferisce quest’ultima, soprattutto se umana; cosi una mezza dozzina di uomini finiscono nel ventre del gigante. Perseguitati da una fame insaziabile, gli eroi greci sbarcano in Sicilia e divorano i sacri buoi d’Apollo: offeso gravemente, il dio farà in modo che nessuno di loro potrà più saziare la sacrilega fame. Dal cibo di cui si nutrivano gli abitanti, dunque, Ulisse cercava di capire in che tipo di paese si trovasse, quali fossero le usanze locali, la loro “cultura” e civiltà; anche oggi il cibo caratterizza i popoli ed è alla base della loro cultura, pur se costituisce la soglia più bassa e più praticabile agli estranei, agli stranieri, a chi, insomma, non ha nulla in comune con usanze culturali diverse dalle proprie. Un italiano o un francese, ad esempio, si può avvicinare benissimo alla cucina cinese o africana, pur non avendo conoscenze della cultura e delle tradizioni di quei paesi. Essendo alla base della cultura dei singoli popoli, il cibo consente una distinzione d’identità anche religiosa tra le genti oltre a riflettere un’identità più attinente alla natura dell’essere, umana o divina. Gli dei si distinguevano dagli uomini anche per i pasti differenti di cui si nutrivano, pane per i mortali e nettare con ambrosia per gli dei; il loro cibo, anzi, somministrato a chi era destinato all’immortalità, ne mutava l’identità, perché il pasto è la manifestazione più immediata dell’identità. Con l’aiuto della semiotica, gli antropologi “leggono” il cibo e ritengono che esso abbia un linguaggio suo, che il modo di mangiare racchiuda un codice decifrabile ed in grado di farci risalire alla cultura della società che usa o ha usato un dato tipo di cibo. Attraverso i “messaggi” inviati da un sistema alimentare possono emergere aspetti e relazioni etniche, di potere e di genere, in campo civile e religioso; si possono, inoltre, evidenziare divergenze ed affinità tra culture, tra organizzazioni sociali, nonché l’omogeneità e la coesione tra i gruppi. Il pane, dicono alcuni forse esagerando, è tutto, attribuendogli così anche una sacralità che non ha in senso stretto, essendo solo simbolo dei beni della terra, quindi né sacro né profano; né si può sostituire il pane a Dio o mettere Dio al posto del pane. Il cibo è solo in evidente rapporto col sacro, e l’antico sacrificio (sacrum facio) consisteva in un’offerta di un animale agli dei, cui seguiva un banchetto per rafforzare la benevolenza e “l’amicizia tra la divinità e gli uomini”, come dice Platone nel Simposio (188c); questo rituale tuttavia subì un’involuzione quando Prometeo, con un inganno, assegnò agli uomini le carni migliori dell’animale sacrificato, lasciando agli dei solo le parti non commestibili che venivano bruciate totalmente e trasformate in fumo. Quest’inganno, escogitato dall’egoismo umano, mise fine alla comunanza del cibo, all’antica “commensalità” tra uomini e dei, i quali ultimi però continuarono a rallegrarsi, nella loro divina benevolenza, e ad accontentarsi dei fumi e degli odori mentre gli uomini, mostrando la propria mortale identità, si cibavano delle carni delle vittime sacrificate, la cui distribuzione delle parti migliori sanciva e legittimava nell’ordine l’identità sociale dei partecipanti al banchetto: magistrati, sacerdoti, cittadini eminenti e via di seguito.

Adriano V. Pirillo


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