Ciò che Narcos non dice: il rapporto tra il calcio e i cartelli colombiani


Tra i tanti demeriti di Narcos, fortunata serie tv prodotta da Netflix a partire dal 2015, risalta agli occhi la quasi totale mancanza di accenni alla strumentalizzazione del calcio di cui il cartello di Medellin e il cartello di Cali (e non solo) si sono serviti per estendere il già ampio consenso sociale di cui godevano.

Oltre ad una narrazione decisamente idealizzata delle vicende della criminalità colombiana, in cui mancano i riferimenti al sistema di connivenze che si era creato già negli anni Ottanta tra i cartelli della droga e la politica statunitense, un ulteriore difetto della sceneggiatura è perciò quello di non aver saputo, o voluto, cogliere l’importanza del ruolo che il calcio ha giocato a favore dei narcotrafficanti.

Esso non è stato decisivo soltanto per l’elezione di Escobar al Congresso colombiano nella sua breve parentesi politica di inizio anni Ottanta, le cui campagne elettorali erano spesso accompagnate dalla creazione di strutture sportive nei quartieri popolari di Medellin (in cui egli è ancora oggi ricordato come un benefattore) in cambio di migliaia di voti, ma lo è stato anche e soprattutto perché ha saputo costruire un sentimento di identità nazionale intorno alla squadra di cui el patròn era proprietario sin dal 1985: l’Atletico Nacional di Medellin.

Allo stesso modo dei fratelli Rodriguez Orejuela infatti, principali esponenti del cartello di Cali e proprietari dell’America de Cali, anche Escobar aveva compreso l’enorme potenziale mediatico del calcio, da poter sfruttare ancor di più costruendo una squadra vincente e formata solo da giocatori colombiani, nella più classica delle retoriche nazionaliste.

L’ingente somma di denaro sporco da riciclare, e la guida tecnica della squadra affidata al visionario allenatore Francisco Maturana (futuro CT della nazionale colombiana e della stessa America de Cali), hanno rappresentato la base per i successi dell’Atletico Nacional, laureatosi campione in Copa Libertadores nel 1989.

Un antiamericanismo patriottico mai troppo velato e i continui richiami al mito di Robin Hood non hanno comunque consentito ad Escobar di allontanare le ombre sulla natura estremamente violenta della sua presenza nel mondo del calcio colombiano: l’assassinio dell’arbitro Alvaro Ortega, colpevole di aver favorito l’America de Cali contro l’Independiente, l’altra squadra di Medellin gestita anch’essa da uomini vicini all’omonimo cartello, ha infatti evidenziato agli occhi del popolo colombiano come sia impossibile imbottire un intero sistema calcistico con i narcodollari senza poi subirne le conseguenze in termini di violenza e morte.

I successi sportivi dei club legati ai cartelli del narcotraffico, culminati con i tre successi nel campionato nazionale dell’America durante gli anni Novanta, sono stati perciò certamente utili al mondo del crimine colombiano avendogli consentito di acquisire approvazione sociale e prestigio, e sono stati altrettanto utili a dare lustro ad una realtà calcistica come quella colombiana, fino a quel momento molto poco ambiziosa; analogamente però la natura sempre più violenta e corrotta del movimento calcistico colombiano ha attirato a sé i riflettori dell’opinione pubblica internazionale, incentivando così la repressione attorno al narcotraffico.

La strumentalizzazione del calcio ha perciò rappresentato per i cartelli una vera e propria arma a doppio taglio. Inoltre, la costanze presenza di un gruppo di giocatori della nazionale colombiana (Renè Higuita su tutti) all’interno della singolare struttura carceraria in cui Escobar “alloggiava” dal 1991 ha contribuito, insieme alla crescita progressiva del mondo delle scommesse clandestine, alla criminalizzazione del clima che si respirava attorno alla nazionale colombiana, culminata con l’assassinio del capitano Andrès Escobar dopo il mondiale di USA ’94, in cui il difensore si era reso protagonista di un autogoal contro i padroni di casa, certificando così l’eliminazione dei cafeteros dal torneo.

La massiva partecipazione della cittadinanza ai funerali del calciatore nella città di Medellin, ormai orfana dell’omonimo narcotrafficante ucciso da un’operazione della DEA nel 1993 con il contributo fondamentale dei gruppi rivali al cartello da lui gestito, è diventata sin da subito simbolo di speranza e di rinascita per il popolo colombiano, rappresentando perciò una sconfitta per il mondo del narcotraffico.

Le vicende del narcofutbol, la cui fine per alcuni è rappresentata dai vari procedimenti del governo Clinton mirati ad abolire l’infiltrazione dei narcodollari nelle società sportive colombiane (il governo Clinton è stato uno dei pochi governi statunitensi a voler affrontare concretamente la piaga del narcotraffico; il governo Reagan si era invece distinto per gli ambigui rapporti con le realtà criminali sudamericane), hanno infatti scandito metaforicamente tanto l’ascesa quanto il declino di un intero sistema criminale. E’ perciò utile ribadire ancora una volta quanto sia grave l’assenza di questi aspetti nel soggetto della serie Narcos, che si è fatta complice di una semplificazione narrativa, allontanando lo spettatore da un’analisi completa delle vicende narrate e proponendo al contrario una visione della storia in cui il confine che separa il bene dal male, la repressione statunitense dalla criminalità colombiana, Escobar dal mito popolare che lo immagina come un benefattore, è molto più delineato di quanto i fatti non abbiano messo in evidenza.

Francesco Calabretta


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