Il tema della malinconia non è certo nuovo, ma immenso è il valore storico che, da oltre duemila e quattrocento anni a questa parte, vale a dire a cominciare da Aristotele, è stato dedicato dalla cultura occidentale a questo particolare stato d’animo, strettamente legato a diversi problemi dell’uomo che spaziano ed abbracciano il terreno storico, filosofico, letterario, medico.
Un carattere malinconico attrae ed affascina, segno caratteristico di menti eccezionali, di geni o eroi, pur in un’ambivalenza che denuncia un temperamento morboso, ammalato, spesso causa di sofferenza e consapevole follia; è qualcosa, ad ogni modo, che esula dalla quotidianità, dalla generalità degli uomini, ed assimila l’individuo ad un animale o ad un dio, almeno secondo la concezione aristotelica, nel senso che racchiude in sé qualcosa che porta ad un distacco dalla società, ad uno stato d’isolamento e rifiuto della vita collettiva.
I malinconici, paradossalmente, godono per la loro malattia, e lo stato della solitudine è l’unico che permette loro quasi di nutrirsi di quegli umori d’atra bile in un lento processo di mitridatizzazione e di cui però, alla fine, rimangono vittime; né é facile curarli se non quando è ormai troppo tardi, giacché il loro male è visto come stato piacevole del loro essere e vivere.
La “melanconia” (dal greco “melàina-cholé, bile nera), com’era detta anticamente, esprimeva dunque un misto di genialità e follia, e secondo la tradizione cristiana configurava il peccato dell’accidia; vittime preferite di questo male, bile nera ed umore saturnino, erano i letterati e gli uomini di preghiera, frati e suore che, nella solitudine angosciosa delle loro celle, lontane dalle gioie e dai piaceri mondani, cadevano preda di tentazioni e fantasie che non riuscivano a controllare.
Colpiti da questo “mal di cella”, non di rado subivano alterazioni caratteriali e scompensi di personalità al punto da perdere la ragione e precipitare nel baratro dello sconforto e della disperazione, annoverati tra i più gravi peccati del Cristianesimo, perché presuppongono un vuoto interiore senza speranza e fiducia nella Divina Provvidenza, e che a volte aprivano le porte al suicidio.
Era soprattutto di notte che si risvegliava la malinconia scaturente dalla solitudine, la quale suscitava “desideri della carne” in uomini e donne isolatisi in ritiri ed eremi, voglie ed impulsi di una passione torbida e pigra per lungo tempo sopiti nei sensi, creando “illusioni notturne” che sconvolgevano l’animo degli “orantes” anche se rimanevano nelle “parti inferiori” di quel “vestito logoro” (Sant’Ambrogio) e di quel “corpo prigione dell’anima” (Platone), opposta allo spirito, semplice carne e ricettacolo del desiderio, o del “demone meridiano” che trascina via sempre più in basso l’anima originaria del mondo celeste.
Così il corpo doveva essere oggetto di continua sorveglianza, punito se necessario, mai amato bensì temuto, perché altrimenti cedeva alle tentazioni: bastava un raro incontro con una figura femminile in un villaggio, magari vista solo di sfuggita, o indovinata e confusa in lontananza con l’immagine ingannevole di un covone di paglia o di un pupazzo spaventapasseri.
Per evitare che gli “orantes” cadessero vittime del “demone meridiano”, che li visitava nella solitudine delle loro celle o nei deserti, sintomo di un pericoloso “recessus a bono divino”, S. Benedetto dettò la regola dell’Ora et Labora, ossia la cura della preghiera per l’anima e del lavoro per il corpo; la “malinconia” allora scomparve dal lessico ecclesiastico o, meglio, fu nascosta e secolarizzata sotto l’accidia, sempre ad ogni modo implicante la trasfigurazione profana di una “passio animi” che derivava dalla perdita del sacro e della grazia divina.
Questa « maladie de l’ àme », dal medio evo sino al XVIII secolo, era principalmente una prerogativa del corpo maschile ; per i predicatori e gli scrittori, le donne erano semplici oggetti di desiderio e strumenti, indispensabili finché si vuole, della lussuria. “Un chiuso giardino tu sei mia sposa”, recitano le parole del Cantico, ove il corpo della donna, preziosissimo oggetto, deve essere protetto e controllato, salvaguardandone soprattutto la condizione di verginità.
L’hortus conclusus, nei secoli di mezzo, era rappresentazione simbolica del femminile e nella visione casta e composta della Madonna che, assieme al bambino, discorre con altre vergini fanciulle, e nella visione più eccitante di “hortus deliciarum” di cui menestrelli e trovatori cantavano i giochi degli innamorati che si rincorrevano gioiosi tra i fiori e gli alberi da frutta.
Amati, ma spesso odiati, questi recinti monastici erano il rifugio coatto della maggior parte delle donne che, a causa della mancanza di una dote adeguata, non potevano sposarsi; pare anzi che verso la metà del 1500 il senato di Bologna chiedesse che si costruissero più monasteri poiché “le zitelle in città” erano ormai numerosissime: per molte di loro, però, era una scelta volontaria e libera, dettata dal desiderio religioso o da quello di poter vivere e gestirsi da sole “rifiutando il commercio delli fallacissimi uomini”; anch’esse, tuttavia, non di rado rimanevano vittime della bile nera, responsabile, come sosteneva in piena età di mezzo Ildegardo di Bingen, del “demone meridiano”, che portava alla trasgressione e al peccato a causa della degenerazione in malattia dell’inclinazione temperamentale, con il consequenziale offuscamento delle facoltà dell’anima. Secondo la teoria di Marsilio Ficino (De Vita triplici), è l’atra bilis naturalis a colpire soprattutto gli animi più nobili e gli ingegni più elevati, con i suoi doni equivoci, di poeti, filosofi e letterati in genere ma anche streghe, astrologi, maghi ed indovini che sfoggiano un falso potere profetico determinato dall’umor nero, dal quale però già Tommaso Campanella metteva in guardia: ”La malinconia…non è causa di sagacità e di antevedere…essa non è causa né disponente né efficiente della profezia e delle scienze…”.
Perciò d’ora in avanti tutti i medici e i saggi avranno il compito di “iscacciare ogni sorta di malinconia, morbo oggidì tanto comune, che non vi è chiostro, non cella, non città, non villa, che ogn’uno non se ne vada curvo, “sua dum pendet Mantica tergo” (Giacomo Ferrari, Democrito ed Eraclito. Dialoghi del riso, delle lacrime e della malinconia). Tra i letterati, l’altra categoria assieme agli “orantes” ad essere colpita dalla malinconia, l’antesignano è il Petrarca, la cui icona di poeta che cedeva al vitium corruptae imaginationis, è forse la prima rappresentazione del Malinconico nella nostra letteratura.
“Solo e pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti…” scrive il Poeta in uno dei suoi più bei sonetti, alla ricerca di quella solitudine che lo portava spesso a disdegnare la compagnia dei suoi simili, a causa dell’ossessivo bisogno di meditare su problemi d’amore, sui desideri mai sopiti di Laura che lo prostrano, mettendolo in una condizione psicologica e morale di tristezza e malinconia che si protrarrà per tutta la vita.
Questa passione inappagata di Laura lo tormenta giorno e notte, senza tregua, e lo fa vivere in un continuo alternarsi di momenti d’esaltazione e di depressione, tra fugaci istanti d’estasi quasi divina e periodi d’abbandono a pensieri terreni e carnali. Il travaglio e il contrapporsi di questi sentimenti nella poesia del Petrarca si tingono del tenue sentimento malinconico che pervade anzi tutto il Scretum, dove egli confessa che il suo difetto più grave è l’accidia, ossia una sorta d’odio per il lavoro misto alla noia, che gli toglie gioia e serenità.
Poco più di due secoli più tardi, Torquato Tasso, l’autore della “Gerusalemme Liberata”, grande Malinconico imprigionato a causa d’un sentimento e una passione mal celata, farà le spese dei giochi politici di corte, quella corte che sempre lo affascinava con le sue luci, il lusso, la spettacolarità, la gioia del vivere, ma in cui egli sentiva la vanità, la maschera dell’angoscia, donde conseguiva un sentimento contrastante verso quel mondo, un duplice rapporto d’odio ed amore che gli porterà una smania continua di viaggiare: “peregrino errante” si definì il Tasso, un po’ come il Petrarca.
Anche lui bramava la solitudine, cercando di fuggire da sé, dagli altri e dalla corte che pure lo attirava, perché era lì il luogo della malinconia e lì il Poeta poteva indossare la maschera impenetrabile del genio saturnino sopra il volto della sua segreta malinconia. Ma è difficile, forse impossibile, fuggire dal proprio Io e, allorché questo è alterato da fragilità psichiche e segnato dalla sofferenza fin dall’infanzia (“…aprii gli occhi in questa luce a me non mai serena”), la vita assume ritmi drammatici, che lasciano soli con se stessi, in compagnia della propria miseria, acuita dalla coscienza del fluire degli uomini e delle cose verso la morte.
Adriano V. Pirillo