Quando Salvini salvò la banda Bossi


Ahi Ahi! farla fuori dal vaso mentre si critica le pisciate degli altri è decisamente poco professionale. Così è successo a Matteo Salvini, che tra la quota 100 e il neo colonialismo francese, tra la chiusura dei porti italiani e una colazione offerta ai delinquenti arrestati, si dimentica di denunciare i più famosi padre e figlio della politica leghista. Certo, avete capito! Parliamo di Umberto e del, di lui, figlio Renzo, meglio conosciuto negli ambienti ittici come il trota.

La Corte d’Appello di Milano ha disposto il non luogo a procedere per i due Bossi diversamente che per l’ex tesoriere Belsito, che ha ricevuto una condanna a 1 anno e 8 mesi di reclusione e 750 € di multa (pena sospesa). Già il 18 settembre 2018 adombravo, in un mio cappuccino (Quando il PD guarì i mali della Lega), la reale possibilità che Matteo Salvini, in base alla norma introdotta dal governo Gentiloni e voluta dal Pd, non procedesse con la querela nei loro confronti. Facile profezia quando si conoscono i meccanismi peccaminosi della politica italiana. Ricorderete anche la vicenda del cognato di Renzi che fece sparire 6,6 milioni di euro destinati all’Unicef e con questa che non ritenne giusto fare una denuncia per capire dove fossero finiti quei denari (Truffe, Carità e Vizi). E’ la politica del “tu fai un favore a me ed al momento opportuno, te lo restituisco con gli interessi“. Solo che questa volta la restitutio, secondo il fatto quotidiano, era stata messa nero su bianco attraverso una scrittura privata che impegnava l’attuale segretario, Matteo Salvini, a tutelare il padre della Lega, travolto dalle inchieste giudiziarie ma ancora molto influente tra i leghisti duri e puri. Scrittura sottoscritta il 26 febbraio 2014 dallo stesso Salvini, dall’allora segretario amministrativo Stefano Stefani, dallo stesso Bossi e dallo storico avvocato del Senatùr, Matteo Brigandì.

Sempre secondo quanto riferisce “Il fatto quotidiano”, Brigandì rinunciò a rivendicare una parcella milionaria per aver difeso il partito dal 2000 al 2013 e in cambio l’attuale segretario assicurava a Bossi una “quota” pari al 20% delle candidature in posizione di probabile elezione, più uno stipendio da presidente di partito pari a 450mila euro l’anno come “agibilità politica”. Ma di particolare attualità era soprattutto il punto 7 di quella scrittura privata: “Il procedimento penale pendente avanti il tribunale di Milano ove Bossi è difeso da Brigandì, non avrà, da questo momento, alcuna interferenza da parte della Lega che non intende proporre azione risarcitoria nei confronti di alcuno dei membri della famiglia Bossi”. Con una querela di parte contro i Bossi, Salvini avrebbe interferito senza dubbio nel procedimento milanese.

Questo mi ricorda la vicenda della lapidazione dell’adultera con Gesù che dice “Chi è senza peccato scagli la prima pietra“. Ecco, dico a tutti, ma proprio tutti, i politici… non riempitevi le tasche di pietre perché rischiate di appesantirvi.

Gianni Ianni Palarchio (Blog)


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