Scuola, classico o scientifico?


scuola3L’estate è ormai finita e tra poco inizierà il nuovo anno scolastico che, per molti ragazzi/e (e i loro genitori) significherà anche dover scegliere tra indirizzo scientifico e indirizzo classico umanistico, e dunque si discuterà su una “vexata quaestio” che risale forse alla distinzione classico-romantica dell’‘800 e che si rinnova di continuo nonostante le riforme. Forse è esagerato parlare di dualismo, quasi si tratti di una dottrina che ammetta due principi irriducibili, quali la luce e il buio, la vita e la morte, o, filosoficamente, che riguardi teorie cartesiane sulla distinzione metafisica tra res cogitans (cose immateriali) e res extensa (cose materiali), ma sicuramente la scuola italiana insiste tutt’oggi nella contrapposizione atavica tra cultura scientifica e cultura classica, sicché ci si ripete col solito topos che una cosa è lo scienziato e un’altra è il letterato o il poeta o il filosofo.
Da una parte, insomma, ci sarebbe il pensiero (res cogitans) e dall’altra la materia (res extensa), “l’un contro l’altra armato”, come se la scuola avesse due bandiere con una delle quali fosse necessario schierarsi in odium dell’altra: quella dello spirito, unica e vera, contrapposta all’eresia dell’altra, degli pseudoconcetti; e quella della materia, regina della “vera” scienza, che disprezza o al più tollera, fantasie e filosofemi. Un tempo, lo studio delle varie discipline, o i loro tentativi, era fatto in modo omogeneo ed unitario in un ambito esteso e molteplice che abbracciava ogni branchia del sapere, non perché mancasse, già d’allora, una netta distinzione per materie, ma perché ognuna di loro era affrontata e svolta con il medesimo metodo mitico-scientifico. Fu Galileo Galilei a dire basta alla metafisica, sostenendo inderogabilmente che la base della scienza era la realtà e l’esperienza; tutto il resto rientrava in un’ottica diversa, era “materia” di religione, d’arte, di morale, e non poteva fregiarsi della cittadinanza scientifica. Da Galilei ad oggi, ambedue le culture hanno fatto progressi eccezionali ma sempre in modo distinto e separato, a volte cercando ognuna di barare per affermare il predominio sull’altra, reciprocamente servendosi d’espressioni e parole roboanti, quali Ragione pura per spiegare corpi umani, Libertà per farsi largo in una competizione elettorale, Giustizia per coprire un privilegio, eccetera. Quest’antinomia crescente tra il sapere sempre più specializzato e globalizzato della cultura scientifica e quello riflessivo della problematizzazione della cultura umanistica, con finalità formativa la prima e informativa la seconda, richiama oggigiorno alla mente la massima di Montaigne: ”Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”; e se appare un po’ patetica l’esaltazione della cultura classica fatta da qualcuno che arriva ad invocare “la grande offensiva che riporti la vittoria della cultura classica nella scuola”, sarebbe altrettanto sciocco e semplicistico sostenere la supremazia della scienza per gli incredibili risultati raggiunti dalla conoscenza scientifica. Il problema di questo “conflitto”, infatti, si deve soprattutto alla concezione neoidealista di Croce e Gentile, che ha diffuso quotidianamente tra i banchi di scuola questo dualismo tra le due culture specialmente in relazione alla metodologia didattica, nel senso che ha quasi plagiato le menti di docenti e discenti persuadendoli che la cultura classica va insegnata in maniera prevalentemente storicistica, mentre la scientifica in modo astorico. In effetti, nelle nostre scuole, non s’insegna né si studia la letteratura, la poesia, la filosofia, l’arte, bensì la “storia” della letteratura, dell’arte, della filosofia eccetera; la cosa cambia per le materie scientifiche di cui non si studia, ad esempio, la storia della matematica o fisica o chimica, ma queste singole discipline considerate nella loro autonomia disciplinare e teorica. Di qui, sostanzialmente, è derivato il pregiudizio nazionale secondo cui bisogna avvicinarsi agli studi umanistici con un metodo storico, sì da storicizzare i vari argomenti singolarmente, mentre per le discipline scientifiche occorre un approccio del tutto destoricizzato, come se la verità scientifica fosse fuori della storia; per questo motivo si ha una sorta di stortura culturale che vede gli “scienziati” come uniche persone serie, studiosi “di fatti e non di parole” mentre gli umanisti sono ritenuti incapaci d’aspirare a verità valide universalmente, confinate in un ristretto orizzonte di una relatività approssimata e priva di qualunque valore pratico. Per superare questa situazione, causa non ultima dell’arretratezza annosa della scuola italiana rispetto a quell’europea, e che oggi appare obsoleta anche per il peso raggiunto dalla cultura scientifica, ovvero dalla “storia” della scienza che oggi è in grado di riscrivere forse la stessa storia del pensiero mondiale, bisogna superare il neoidealismo e considerare cultura umanistica e scienza non più contrapposte ma catalizzanti i vari saperi. Per insegnare la condizione umana, che Rousseau nell’Emile ritiene la prima finalità dell’educazione, è fondamentale il realizzarsi della convergenza di tutte le discipline cui entrambe le culture devono concorrere; ma se la finalità formativa, ossia scientifica, della scuola, ha la preminenza, essa non può fare a meno, per realizzarsi, della cultura umanistica, che offre la possibilità di lettura ed introspezione del genere umano, sia dal punto di vista soggettivo sia da quell’esistenziale: per conoscere l’uomo, il suo animo e la molteplicità caratteriale, le scienze non sono sufficienti.

Adriano V. Pirillo


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