Viviamo nell’era dei neologismi ed ogni lingua, compresa la nostra, è oggi costretta ad accettare quasi quotidianamente, come mai era successo nel passato, un numero sempre più crescente, una folla di novità linguistiche. Queste attengono a tutta una serie d’oggetti materiali ma anche d’atteggiamenti spirituali che tecnologia, evoluzione intellettuale ed evoluzione civile ci “sfornano” senza sosta. L’evoluzione abbraccia diversi ambiti, nel significato generico di sviluppo graduale e completo, che vanno dal linguaggio militare a quello ginnico e sportivo, allo scientifico (evoluzione della specie), al filosofico – politico, al linguistico. In quest’ultimo ambito, per evoluzione s’intende una serie di “modificazioni fonetiche, morfologiche, strutturali, semantiche, attraverso le quali passa una lingua nel suo sviluppo storico” (Devoto Oli). A peggiorare le cose, è che a noi italiani piace (purtroppo, aggiungo io) tappezzare il nostro linguaggio con termini inglesi, francesi, barbarismi vari. Per chi ami la purezza della lingua è duro ammetterlo, ma è innegabile che neologismi polisemantici ed abbreviazioni mutuate dal frasario in uso sui telefoni cellulari stiano imbastardendo la nostra lingua. La quale, si badi bene, già maltrattata nella scuola berlusconiana (quella delle tre “I”, impresa, inglese, internet), diventerà con quella renziana (buona!?) “… una soap opera di qualità sempre più commerciale, massificata e scadente, un vivere quotidiano che si trascina troppi interrogativi di senso e d’identità professionale…”. Hai voglia a dire che potremmo fare benissimo a meno di usare anglismi d’ogni tipo perché certamente non mancano i corrispondenti italiani; quando una cosa piace e fa moda, ossia riesce a coinvolgere milioni di persone “comuni” ed addirittura i migliori vocabolari della nostra lingua (cfr. Zincarelli) che accettano parole come linkare, chattare, curvista, ecc. non c’è più niente da fare. L’evoluzione (o imbarbarimento?) della lingua non si arresterà facilmente e frasi tipo “Ho chattato tutto il giorno per cercare un farmaco killer che ha provocato risarcimenti da record, ma il mio computer è andato in tilt e l’ho dovuto resettare”; oppure, “Facciamoci un selfie con il tuo smarphone e poi twittiamo la foto così aumentano i follower sul profilo”; o ancora espressioni tipo googlare , fotoscioppare, matchare, taggare, è il minimo che andremo a leggere. Tra i forestierismi e le espressioni gergali (sono oltre 700 quelli che sono stati accolti nelle pagine del nuovo Zincarelli) s’incontrano, dunque, termini ed espressioni quali “accessoriare e antiglobalizzazione”; “si batte cinque” (in segno di reciproca intesa e soddisfazione) con un tifoso fanatico di calcio, “un curvaiolo” che, magari, è anche un “prezzemolino” (chi mette il naso dappertutto) o, quando non va allo stadio, bazzica i “punkabestia”, i gruppi giovanili che vivono sotto i ponti assieme ai cani. E che dire, poi, dei “reality show”, magari “taroccati” da qualche “zanza”, imbroglioni e millantatori che vendono fumo e alito di drago alla credulità popolare? Non è, tuttavia, soltanto la lingua comune e dialettale a sfornare ogni anno decine di nuovi vocaboli; c’è anche il linguaggio scientifico e quello politico che impongono termini quali “nandralone, linkare, tobin tax, warm-up, buzzicone (individuo corpulento e dai modi zotici), o contribuiscono a diffondere in senso assai lato l’ambito semantico di termini già presenti. Classico, a questo proposito, è stato qualche anno fa l’uso del vocabolo “girotondo” che ha spopolato nel linguaggio politico. Detto questo, l’esistenza di parole straniere in un certo tipo di linguaggio non significa che dobbiamo usarle sino alla nausea anche quando, magari, il vocabolo italiano renderebbe meglio il concetto che vogliamo esprimere; è, poi, essenziale soprattutto che si osservino sempre e comunque le regole di grammatica, ortografia e sintassi, per non minare le fondamenta della lingua. Per il resto non credo che si possa fare granché per fermare l’invasione di termini stranieri nel nostro linguaggio, come non si può fare nulla contro quella non solo culturale dell’islamismo. Se noi per primi non siamo in grado né abbiamo l’orgoglio d’essere e mantenerci italiani e cristiani, di parlare la lingua più dolce e musicale del mondo, quella che è la diretta discendente del latino e del greco, lingue simbolo assoluto della cultura mondiale, significa che meritiamo di essere trattati come un’etèra che, pur apprezzata anche per cultura ed eleganza, rimaneva (e rimane ancora?) sempre una donna di facili costumi che chiunque si può permettere di svillaneggiare.
Adriano V. Pirillo