Il governo italiano è il re della mafia


articoliutenti1I tanti processi che ancora insistono nei nostri tribunali e che riguardano anche alti personaggi (ex ministri, parlamentari, generali e persino il due volte eletto presidente della repubblica) non sono che un’ulteriore conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’Italia è e sarà sempre la stessa, ossia quella nata dalla cosiddetta Unificazione del 1861 voluta e guidata in apparenza da Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II, ecc. ma in realtà fortemente pretesa da alcune potenze europee e d’oltre oceano, quali l’Inghilterra, la stessa Francia (anche se più occultamente) e gli Stati Uniti d’America. I motivi erano tutti di natura economica e commerciale, temendo la “perfida Albione” soprattutto, l’alleanza ormai prossima tra il Regno delle Due Sicilie e la Russia dello Zar che mirava ad avere porti amici nel mediterraneo, in modo che la sua flotta potesse ostacolare il predominio secolare dell’Inghilterra nei rapporti commerciali specie con le Indie e la Cina. Grande peso, poi, ebbe la Massoneria che, in estrema opposizione etica-teologica-culturale alla Chiesa cattolica di Roma e al papato, armò materialmente e moralmente (con l’invio di molto denaro) le mani e le menti di migliaia di uomini d’ogni genere, criminali compresi, come lo stesso Garibaldi ebbe a constatare e a scrivere nel suo diario in data 11 maggio 1860: “E Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta”. Quando poi i piemontesi giunsero a Napoli decisero addirittura di “istituzionalizzare” la Camorra affidando ai suoi capi la gestione dell’ordine pubblico. Il faber di questo patto scellerato fu il Prefetto Liborio Romano, già esponente di spicco del Reale governo borbonico, il quale bellamente e alla luce del sole scrisse a Salvatore de Crescenzo, autorevole membro della camorra, invitandolo a “redimersi per diventare guardia cittadina, con quanti compagni avesse voluto, col fine di assicurare l’ordine. In cambio, i camorristi irregimentati avrebbero goduto di amnistia incondizionata e stipendio governativo”. Famose poi furono le parole del deputato repubblicano, Napoleone Colajanni, che nel 1900 affermò in pieno Parlamento: “Per combattere e distruggere la mafia, è necessario che il Governo Italiano cessi di essere il re della mafia”. Quanti, allora, specie al Nord, sostengono che questa piaga cancrenosa della mafia sia preesistente all’invasione del Regno delle due Sicilie, sono invitati a rileggersi “I Promessi Sposi” del Manzoni, il romanzo storico più famoso della nostra letteratura, che descrive tra l’altro costumi e società del tempo (1628-1630). Che cosa sono i personaggi di Don Rodrigo, i Bravi ( tra cui il Griso e il Nibbio), il conte Attilio e soprattutto l’Innominato, da identificare in Francesco Bernardino Visconti, ricco feudatario e capo di una combriccola di delinquenti usi a delitti d’ogni tipo, se non boss e criminali antesignani dei camorristi e mafiosi odierni? Il 3 luglio 1978 il giudice Rocco Chinnici, fondatore del cosiddetto Pool antimafia (fatto poi saltare in aria assieme alla scorta nel 1982), studioso del fenomeno mafioso, nella sua relazione sulla mafia tenuta in un convegno organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Grottaferrata (e ripetuta poi in un’intervista), aveva chiaramente dichiarato: “Riprendendo le fila del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia”, aggiungendo più avanti: “La mafia … nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Sulla collusione dei politici con questi due poteri, ossia criminalità e massoneria, che per alcuni rappresentano la stessa cosa, non si può che prendere atto di fatti inequivocabili e risaputi da tempo: Cavour, Mazzini, Pisacane, Crispi e lo stesso Garibaldi (solo per ricordare i più famosi) erano massoni; l’eroe dei due mondi, anzi, ne divenne fin’anche il gran maestro come leggiamo in una sua lettera di ringraziamento ai suoi elettori: “Illustrissimi fratelli. Assumo di gran cuore il supremo ufficio di capo della Mass. It. costituita secondo il rito scozzese riformato ed accettato. Lo assumo perché mi viene conferito dal libero voto di uomini liberi, a cui devo la mia gratitudine non solamente per l’espressione della loro fiducia in me nello avermi elevato a così altissimo posto, quanto per l’appoggio che essi mi diedero da Marsala al Volturno, nella grande opera dello affrancamento delle province meridionali. Codesta nomina a Gran Maestro è la più solenne interpretazione delle tendenze dell’animo mio, dei miei voti, dello scopo cui ho mirato in tutta la mia vita. Ed io vi dò sicurtà, che mercè vostra e colla cooperazione di tutti i nostri fratelli, la bandiera italiana, che è quella dell’umanità, sarà il faro da cui partirà per tutto il mondo la luce del vostro progresso. Che il Grande Architetto dell’ Universo spanda le sue benedizioni su tutte le logge e che ci guardi sempre con occhio propizio e ci continui le sue grazie il nostro divino protettore San Giovanni di Scozia. Abbiatevi il bacio fraterno- Torino20 marzo 1862.” Avete capito bene, cari lettori? Altro che patrioti e martiri del Risorgimento: Garibaldi ringrazia i suoi “fratelli” massoni per l’aiuto che gli hanno dato da Marsala, ossia dall’inizio della spedizione dei Mille, sino al Volturno, ovvero alla battaglia-ultimo atto dell’avventura garibaldina. La massoneria, insomma, fu presente nella conquista delle Due Sicilie con denaro e combattenti così come lo furono picciotti e camorristi già da 12 anni prima, come attesta Paolo Macry (Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi. Il Mulino ed.): “Nel 1848 i borbonici soccombono a un miscuglio micidiale di iniziativa politica e pressione sociale, che si esprime attraverso la guerriglia contro le truppe reali, le incursioni nelle città fedeli a Napoli, gli attacchi ai posti di polizia e il massacro dei poliziotti, il saccheggio di uffici pubblici e abitazioni private, il rapimento degli avversari politici e dei ricchi”. Oggigiorno la criminalità organizzata è pienamente e innegabilmente addentro alla res publica, se è vero che, secondo il report 2010 di SOS Impresa, il fatturato delle mafie è stato stimato in 138 miliardi di euro, la liquidità in 65 miliardi e l’utile in 105 miliardi. Nello stesso anno, il report ricorda che l’Enel ha registrato utili per 4,4 miliardi di euro, la Telecom per 3,21 miliardi e la Fiat per 442 milioni. Con queste cifre davvero qualcuno pensa che il fenomeno Mafie sia affare privato di qualche centinaia di boss, o non sia invece vera la dichiarazione dell’on. Napoleone Colajanni secondo il quale “Per combattere e distruggere la mafia, è necessario che il Governo Italiano cessi di essere il re della mafia”?

Adriano V. Pirillo


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