Il quarto appuntamento della stagione teatrale comunale di Soverato 2018/2019 è stato con lo spettacolo
“La Confessione”, testo e regia di Adriana Toman. “Uno spettacolo intenso e capace di catturare il pubblico”, così ha esordito il presentatore Lino Gerace nell’introdurre la serata, creando nel pubblico grandi aspettative, pienamente soddisfatte.
Sulle scene l’incontro tra Costanza D’Altavilla, Regina di Sicilia qurantaquattrenne, e Gioacchino Da Fiore, Fondatore dell’Ordine Gioachimita all’epoca sessantottenne.
Tratto dall’opera Trilogia Gioachimita di Adriana Toman, edito Rubbettino, l’episodio teatrale rappresenta la conclusione del testo, portato nei teatri con grande successo lo scorso anno con la prima parte “Davanti alle mura di Gerusalemme”.
Interpreti d’eccezione e di straordinaria bravura gli attori Marco Silani, nel ruolo dell’abate Gioacchino, Alessandra Chiarello, nel ruolo di Costanza D’Altavilla, Umberto Silani, nel ruolo di Don Ignazio e Barbara Bruni, nel ruolo di Nadir, sotto la direzione tecnica di Paolo Carbone. Da menzionare assolutamente i bellissimi costumi di M. A. Roccanova e la figura dell’aiuto regia Antonio Giraldi.
La confessione di Costanza D’Altavilla ad opera dell’abate avviene in effetti nel 1196 ma l’autrice e regista immagina che tra i due ci sia stato un altro incontro dopo la morte di Enrico, un momento in cui Costanza si sfoga di tutti i soprusi sopportati a causa del matrimonio subito per ragioni di ordine politico.
Un’ora e mezza di dialoghi intensi hanno totalmente catturato il pubblico presente riportandolo in tempi lontani ad assaporare fatti storici ma soprattutto momenti di umanità, quell’umanità attinente all’animo che non muta con lo scorrere del tempo. Parole forti proprio sull’umanità quelle di Gioacchino, pronunciate per bocca di Marco Silani, “È vero, gran parte dell’umanità non ha la capacità di fare scelte, non è educata a farle, anche perché le contingenze della vita sono tali che spesso la si attraversa dovendosi adattare momento per momento agli eventi…ma l’umanità prima o poi dovrà arrivare a scegliere di smettere di pensare come si vuole che pensi e iniziare ad avere il coraggio di servirsi del proprio intelletto”.
L’opera è tra l’altro un inno alla costruzione della pace in terra da realizzarsi partendo proprio dall’animo di ciascuno e unendo le diverse individualità verso il raggiungimento di un obiettivo comune che non resti nella dimensione vagheggiata del sogno ma si traduca nella concretezza empirica del progetto.
E poi ancora la centralità della donna e la denuncia tramite la figura di Costanza della sua condizione di umiliazione, portata alle estreme conseguenze di appropriazione e uso del suo corpo. In una scena focale della confessione è Costanza a chiedere all’abate illuminato di indicarle la via dell’accettazione della mortificazione subita. E si coglie qua l’estrema sensibilità che dinnanzi all’ineluttabile deve cercare e trovare l’unica possibilità di vita, l’accettazione che porta al superamento.
Il senso ultimo è che la consapevolezza rende liberi ma ad essa si deve affiancare una capacità di cogliere la bellezza, che richiede più animo che intelletto, e si nutre più di silenzi che di parole perché la bellezza stessa racchiusa in un fiore o in altra opera del creato è più che mai silenziosa. E v’è in questo silenzio molta più eloquenza che in tanti flussi e scambi di parole.
Daniela Rabia