Sofferenza e fatalismo dell’uomo


articoliutenti1Il genio classico è espressione di libertà, di una libertà riferita alla natura non allo spirito. Le forze e le energie dell’uomo si svolgono in tutta la loro esuberante vitalità, come dal germe si sviluppa il fiore e da esso il frutto. Lo spirito, pur nel travaglio delle forze interiori, non partecipa e rimane solo spettatore, non attore quindi, di fronte a questa meravigliosa fioritura e al dramma della propria esistenza, che rimane sempre e comunque soggetta alle leggi ferree del Fato. Altra cosa è l’amor fati di Nietzsche, che ripensa alla ciclicità del tempo, ed allude alla teoria superomistica del destino non nel senso di rassegnata sottomissione o passiva accettazione della sorte “classica” ma in quello di un cosciente e razionale volere della realtà presente e di quella che verrà. Concettualmente divergente è, poi, il fatalismo tra occidente ed oriente, laddove il primo si attua nel dispiegarsi d’ogni singola energia che opera nella natura in un congegno di leggi meccaniche, in cui la necessità e la cieca costrizione non escludono lo sforzo individuale, la lotta dell’uomo che è anzi indispensabile al raggiungimento di un fine; il secondo invece agisce fuori della natura e contro di essa: di conseguenza porta necessariamente alla negazione della natura e all’inerte rassegnazione dell’uomo che è parte di essa. Per questo nella tragedia greca l’eroe, pur oppresso da situazioni ineluttabili, non si abbatte mai sfiduciato, non cessa di combattere l’inflessibile tirannia dei fati, ma li affronta con forza e coraggio cercando di dominarli; nello spirito classico operano così due elementi di per sé contraddittori: l’attivismo e il fatalismo, che non è solo un principio teologico con dirette ripercussioni nel campo religioso, ma investe tutte le manifestazioni dell’arte, della scienza, del costume. Il potere del fato prevarica quello degli uomini, degli dei e dello stesso Giove; esso agisce fuori d’ogni volontà o previsione umana, manifestandosi con gli eventi più prodigiosi e inaspettati, ed anche fare il bene non è lasciato al libero arbitrio umano ma sottostà ad una necessità logica che toglie ogni merito alla virtù e responsabilità al vizio. In epoca moderna, una concezione fatalistica la troviamo nelle dottrine astrologiche rinascimentali e, più avanti, nell’Armonia prestabilita di Leibnitz, nella Dialettica necessaria della storia di Hegel, nonché in Nietzsche con la teoria dell’eterno ritorno. Da quest’ultimo viene la tremenda critica a Cristo per non aver saputo insegnare alla gente a soffrire da uomini, ad affrontare cioè la sofferenza da impassibili superuomini, gli unici in grado di opporsi al dolore perché capaci di conoscere se stessi. Affascinato, ciò nonostante, dalla figura del Cristo, immagine potente d’uomo che prende su di sé il dolore del mondo, il filosofo non fu in grado di vedere e cogliere in ciò i principi della fede cristiana, e finì col considerare il Crocefisso un perdente, vittima dei potenti, rimasti alla fine ad avere campo libero.

  “Per capire l’esperienza del dolore nell’epoca contemporanea, ha scritto Mario Bizzotto   in

Il Grido di Giobbe. L’uomo, la malattia, il dolore nella cultura contemporanea (Ediz. Paoline 1996), é necessario dirigere l’attenzione sull’idea che l’uomo ha di se stesso”. Il che non è per nulla semplice, visto il processo di dissoluzione cui è oggi sottoposta l’immagine dell’uomo e che è cominciato, in effetti, già dopo l’Umanesimo e il Rinascimento ma soprattutto dopo l’esaltazione estrema della moralità fatta da Kant nella seconda formula dell’imperativo categorico: “Agisci in modo tale da trattare l’umanità che è nella tua persona, come nella persona d’ogni altro, sempre come fine, mai semplicemente come mezzo”.

E’ innegabile che le nuove concezioni antropologiche siano caratterizzate da un disorientamento, che rende problematico ed incerto il rapporto con la fede e con Dio di colui che soffre, di chi è oppresso dalla malattia, in un’epoca che ha conosciuto orrori e sofferenze indicibili di milioni di persone, e che continua a mostrare indecenti spettacoli ed inaudite atrocità, causa di un diffuso scetticismo sull’esistenza di una giustizia divina. Così oggi l’uomo del postmoderno tenta di affrontare il dolore e la malattia fidando unicamente nella scienza medica, nella sua elevata tecnologia, spesso abusando di farmaci, al fine di superare e cancellare quel dolore di cui non riusciamo a spiegarci le ragioni, il significato; ma la medicina, da sola, non è in grado di annullare la sofferenza, non è la panacea di tutti i mali, non può colmare i vuoti interiori, la mancanza del senso della vita, le turbe nevrotiche dovute alla sensazione dell’inutilità del vivere senza interessi ed iniziative; allora ci sentiamo sviliti di fronte al tradimento e al fallimento della scienza, resi ancor più drammatici dall’attesa e dalla fiducia riposta. “La scienza accresce il dolore”, ha scritto Foucault, quand’essa incapace di eliminare dalla scena della vita la sofferenza e di infondere nell’uomo la speranza, n’aggrava il peso nel pensiero della morte, di fronte alla quale facilmente ci si dispera senza “una valida …man dal cielo”. Il cielo, come nei romanzi di Dostoevskij, opera con Cristo la redenzione dalla sofferenza quando questa è accolta dai suoi personaggi nella luce della fede; essi finiscono inevitabilmente pazzi o suicidi, se invece pretendono di fare a meno della fede e del crocefisso. Per il romanziere russo il dolore accettato nella luce della fede può, paradossalmente, essere fonte di gioia qualora risvegli nell’uomo la conoscenza dei profondi misteri della vita, perché solo Dio può dare la forza di superare il dolore che alla fine redime e  libera dalla colpa. L’uomo del XXI secolo, al contrario, pone la sua sicurezza non nella religione ma nella ragione, nella scienza, e cerca d’affrontare il peso delle sue fatiche e sventure, libero da concezioni metafisiche o consolazioni di fede: ha eliminato insomma la teodicea, trincerandosi nell’effimero presente e disconoscendo ogni considerazione su un orientamento finalistico. La propria condizione umana è accettata con indifferenza, con rassegnazione o con una sorta di mistica della disperazione che molto spesso innesca un processo di chiusura esistenziale e quindi d’autodistruzione sino a conseguenze estreme: basta pensare al tributo altissimo che pagano, al suicidio, giovanissimi ed anziani. E’ stato scritto che “questo è il secolo dell’ateismo (Georges Minois, Storia dell’Ateismo, Edit. Riuniti), che la civiltà del terzo millennio è atea…e che, se pure si parla ancora di Dio, non cambia niente…giacché lo stesso sacro ha fatto il suo tempo; che in questo generale naufragio di valori, resta un unico irriducibile sacro: l’Io”. Cose già dette, e da ben altri ingegni; basta pensare al proclama di Kant nella Critica della Ragion pura, ”Non sentite suonar la campanella? In ginocchio, si portano i sacramenti ad un Dio che sta per morire”; o a quello, ancor più potente, di Nietzsche nella Gaia Scienza: ”Dove se n’è andato Dio? Ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini…! Non sentiamo ancora il fetore della divina putrefazione? Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso”. Queste sono forse le proclamazioni più forti che nel corso della storia si sono levate verso il cielo, ora quasi a sfidarlo, ora quasi con indifferenza; tentativi di svuotare il messaggio salvifico di Cristo ci sono sempre stati, ma tutti con esito negativo: il positivismo, lo storicismo, l’ateismo di Stato, sono puntualmente naufragati, ogni qual volta, in nome della ragione, della moderna razionalità, hanno tentato di sostituirla alla teologia, “regina scientiarum” secondo la cultura medievale. La mancanza di Dio toglie il senso della vita, fa soffrire, i giovani soprattutto, del mal di vivere, privandoli della chiave interpretativa dell’esistenza, dei valori di riferimento, del modo per cogliere le sfide che la realtà d’oggi pone alle nuove generazioni perché possano guardare con fiducia al loro futuro. Il dolore e la sofferenza sono connaturati agli esseri viventi, “dentro covile o cuna, è funesto, a chi nasce, il dì natale”, diceva Leopardi, e lo stesso Dio, le cui nature, quell’umana e quella divina, rimangono distinte nell’unità della persona divina, ha patito grandissima sofferenza sin dall’inizio, come manifestazione della kenosi (spogliazione), quando è passato dalla condizione di Dio a quella di uomo, per proseguire poi sino ad affrontare anche la vergognosa morte sulla croce, la stessa che San Paolo invece volle evitare esclamando verso i suoi carnefici: “Civis romanus sum”. Il senso della sofferenza non può essere, quindi, che quello di uno stretto rapporto tra l’uomo e Dio attraverso l’immenso amore che Egli ha dimostrato, soffrendo per primo nel sacrificio redentore.

 

 

Adriano V. Pirillo


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