Muse ioniche e Muse sicule


MUSE_IONICHE_copertinaPlatone nel Fedro ci invita col bellissimo mito delle cicale ad avere un atteggiamento critico in quel che leggiamo e non a subire passivamente qualsiasi cosa ci venga propinata. Le cicale, profetesse delle muse, tengono in gran conto quanti affrontano la lettura senza farsi incantare o subire il fascino del nome e della fama dell’autore ma assumono una posizione onesta e oggettiva che giudichi quanto realmente valga l’opera e quanto di buono riesca effettivamente a trasmettere al lettore. Nel Sofista, dove il personaggio principale non è più Socrate ma uno straniero di Elea (242c sgg), c’é un raffronto tra le “muse ioniche” (Eraclito) e le “muse siciliane” (Empedocle) e si afferma che le prime sono più intonate, mentre le seconde sono più rilassate. Di muse ioniche parla anche il prof. Ulderico Nisticò in un libro (“Muse Ioniche”, Città del Sole Edizioni 2014) che dovrebbe essere destinato –secondo l’autore- a giovani e studenti del liceo classico. Ma, dopo averlo letto con attenzione, mi sorge la domanda: per farne che? Ad apertura del testo, non l’ho trovato certo accogliente o tale che i giovani possano riposarvi l’occhio o la mente, e l’impressione immediata è quella di una colta confusione. Sinceramente mi aspettavo qualcosa di più da uno che ha insegnato latino e greco per decine d’anni. Dove sono i criteri fondamentali indispensabili nella stesura di un’antologia? Scarso il legame con il contesto storico, politico e culturale in cui é collocata l’opera; insufficiente l’individuazione delle strutture morfosintattiche e testuali e degli strumenti retorici impiegati; nessun messaggio apprezzabile dell’autore che possa suscitare gli interessi degli studenti e dei giovani dei nostri tempi. Un libro del genere, insomma, dovrebbe contenere ben altro che una traduzione letterale, spesso non chiara (su internet insistono traduzioni belle e poetiche, come quelle di Quasimodo o di Ettore Romagnoli ), e cioè dovrebbe avere quanto di meglio serva a chiarire il testo, a metterne in rilievo la natura e i pregi, ad approfondire la conoscenza della lingua nelle sue strutture lessicali e grammaticali; magari, e perché no, con qualche raffronto fra la lingua greca e quella latina. Per brevità mi limiterò a considerazioni solo sugli autori greci, ma “cominciamo dall’inizio”. Il libro non presenta una vera prefazione, un’adeguata presentazione, a parte mezza paginetta striminzita. Manca un’introduzione ai vari componimenti che faciliti la lettura e la comprensione, né esiste alcuna nota estetica ma solo annotazioni, fredde e asettiche, inerenti la natura storica o mitologica degli argomenti. Manca, poi, anche l’indicazione del metro o del nome della strofe (quando si tratta di sistemi strofici), così come non ci sono gli schemi metrici e i sistemi strofici né tanto meno un verso latino di corrispondenza. Il primo poeta è Stesicoro e viene liquidato in meno di diciassette righe; Stesicoro, ricordo, è una delle figure più interessanti della letteratura greca arcaica perché è il solo a rappresentare l’epica narrativa in forme liriche, ovverosia è l’unico a raccontare come Omero ma non utilizzando l’esametro bensì strutture del verso lirico e della strofe lirica, al punto che di lui parla con ammirazione anche Platone (Fedro, 243 a), oltre a decine di altri scrittori greci e latini. Esaminiamo ora qualche verso tratto dalla “Palinodia”… e cominciamo col dire che l’autore neppure spiega cosa significhi il titolo (palinodia, ritrattazione) né l’antefatto… E pensare che proprio questo carme in particolare diede indiscussa fama a Stesicoro e più esattamente i tre versi contenenti la ritrattazione citata da Platone e altri. Al punto, anzi, che cantati nei simposi ateniesi, questi versi diedero vita a un celebre proverbio usato per apostrofare gli incolti: “non conosci neppure i tre versi di Stesicoro” (non scrivo in greco perché non ho il programma di scrittura adatto). Le note “grammaticali”, poi, a fondo pagina non spiegano nulla: si limitano a riportare la parola “giusta” (dialetto attico) senza specificare, ad esempio, se si tratta di voce dorica, eolica, omerica, eccetera. Nei tre versi di cui sopra, il Nisticò dimentica pure di riportare in nota la parola “neusìn”, voce omerica, che sta per “nausìn” (pag. 30). A pag. 34, come “incerti loci”, riporta due frammenti: il primo (92) che parla della vendetta di Afrodite e il secondo (98) di Apollo e Ade. Sulla parola “latet’” c’è il numerino 4 che però non spiega nulla in quanto a quel numero in nota corrisponde la parola “ekeine” che evidentemente non c’entra un fico. Presumo che il prof. volesse scrivere “elàteto” (=si dimenticò). L’ultima parola del frammento è un vocabolo strano, “lipesanoras”, ed è usato solo in questo luogo (ossia è un apaxlegomenon): nessuna segnalazione in nota, come del resto nel frammento successivo dove il termine “paigmosunas” (anch’esso apaxlegomenon) non è degnato d’attenzione. Passando a Ibico, le cose non migliorano: 13 righe di biografia e mancanza di commento critico e sintattico-grammaticale dei carmi, come al n. 266 (pag.50) dove “Eri”, omerico, che sta per “éari” non è annotato da nessuna parte. Neppure “oinantìdes”,verso 4, è segnalato in nota come “apaxlegomenon”. Non va meglio con “taletoisin” , voce eolica, che sta per “taletousi” con accento circonflesso sulla “u” del dittongo “ou” e non con l’accento acuto sulla “epsilon” come riportato in nota. Al carme successivo, n. 267, c’è un “nin” che equivale ad “autòn” ma non è segnalato; c’è un “aetlofòros”, voce omer.ion., equivalente a “atloforos”, ma è ignorato; all’ultimo verso, c’è la parola “òkesfi” riportato in nota ma solo per indicarne il valore strumentale (fi), senza scriverla correttamente “òkesi”. L’ultima parola è un verbo, “éba”, riportato correttamente in nota “ébe”, ma senza spiegare che trattasi di un aoristo gnomico e che va tradotto col presente (com’egli effettivamente traduce). Per quanto attiene Nosside, non si può non notare che il Nisticò ne vuole fare una grande poetessa per mero spirito campanilistico (Nacque a Locri, fine IV sec. inizio III a. C.), anche se lui nega; in realtà la maggior parte degli epigrammi della locrese sono solo mediocri, molti sono sciocchi, a giudicare da quello che ci rimane, e gode di una fama non proprio meritata. Nei versi (pag. 78, VII, 718) dove Nosside dichiara la sua origine locrese, Nisticò non nota né annota niente: “Xein”, omer.ion. al posto di “Xene”; “tu”, dorico, che equivale a “su”. Un commento a parte merita poi il secondo verso dove il “nostro” prof interpreta “tan” come dorico equivalente a “ton” (con omega) riferito a karìton, e legge “enausòmenos” come participio futuro con valore finale, senza riportare l’altra versione, ossia “tan enausaménan”, dorico, equivalente a “ten (eta)…enausamene(eta)n”. Al terzo verso c’è un infinito, “eipéin” che è tradotto giustamente con l’imperativo presente, ma nessuna nota spiega che in realtà è infinito ed ha valore di imperativo. All’ultimo verso, il verbo “isais” (eolico-dorico) è annotato come “oista” senz’altra spiegazione, senza cioè dire che viene da un verbo “ìsami” e che equivale ad “eidò(omega)s”. Ovviamente, “toùnoma”, crasi, uguale a “tò ònoma”, non è proprio considerato. La mediocrità dei versi di Nosside è interrotta praticamente da un’unica gemma, ossia i due versi seguenti (V, 170) pag.75: “Non c’è nulla più dolce di Amore, e ogni altra felicità viene dopo; dalla bocca sputo anche il miele”. Per farci conoscere Rintone (di Siracusa? di Taranto?), creatore della “ilarotragedia”, denominata in seguito fabula rhinthonica in omaggio alla sua inventiva, il Nisticò “spreca” solo 15 righe, comprensivi di biografia e opere; eppure la produzione scenica di Rintone probabilmente era formata da 38 drammi ilari, di cui ci rimangono nove titoli (Dulomeleagro, Eracle, Anfitrione, Ifigenia in Aulide, Ifigenia fra i Tauri, Medea, Meleagro schiavo, Oreste, Telefo), e 28 frammenti, scritti tutti in dialetto dorico di Taranto; di Alessi, sono citati oltre 100 titoli. Di Leonida di Taranto, se le notizie biografiche sono scarse, gli scritti tradotti sono più numerosi, anche se –more solito- il prof. Nisticò non dice nulla di utile “ai giovani” che dovrebbero leggere o studiare il suo libro, a parte le solite note scheletriche, e nemmeno puntuali. Leggo a pag. 88 (VI, 302), due sole noticine: “on apò” che è uguale a “of’on”, ma senza specificare che si tratta di anastrofe, e “oìseai” che sarebbe uguale a “oìsei”; in realtà sbaglia perché non considera la contrazione, “oise”, dove la “e” finale è una “eta” con iota sottoscritto. Né spiega altre “cosucce”, come ad esempio che al verso 5 il “to” con iota sottoscritto equivale ad “o” (omega) con iota sottoscritto, corrispondente al latino “qua re”. Molte voci omer.ioniche non sono mai segnalate né sono annotati i costrutti particolari. Tralascio gli autori latini perché la musica non cambia, ma solo i suonatori, le cui melodie, di taluni davvero stupende (Orazio, ad esempio), emettono stonature assurde. Mi riferisco alla pedestre traduzione dell’ode “O fons Bandusiae” (ma non solo) in cui il Nisticò sembra aver dimenticato che Marco Tullio Cicerone, nel “Libellus de optimo genere oratorum”, sosteneva di preferire una traduzione non verbum de verbo, sed sensum exprimere de sensu, come poi confermato da Orazio pochi anni dopo nella sua Ars poetica. E’ appena il caso di ribadire, infine, che gli autori latini non sono commentati in alcun modo, neppure con le denutrite noticine dei poeti greci.

Adriano V. Pirillo


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