La scoperta dell’America


 Scusate tanto, ma io ragiono e parlo all’antica; e il 12 ottobre è l’anniversario della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo con tre caravelle della beata Isabella, regina di Castiglia. Linguaggio arcaico, direbbero gli intellettuali famosi per la capacità di arrampicarsi sugli specchi; e magari maniaci di “cancel culture”, di quelli che vogliono eliminare la Divina Commedia per non offendere i peccatori… soprattutto certe categorie!

 A dire il vero, è dal 1492 che si dicono tantissime cose su Colombo: nascita, nazionalità, vicende personali prima di diventare celebre, quando era uno sconosciuto ritenuto utopista o matto.

 Oh, non c’era nessuno in Europa il quale credesse piatta la Terra; o che non si potesse uscire dalle Colonne d’Ercole, a rischio di finire come Ulisse nel XXVI dell’Inferno, o di incontrare mostri, eccetera. È che la Terra era ritenuta molto più piccola di quanto l’aveva misurata, con quasi totale precisione, Eratostene Beta. Colombo pensava di raggiungere un continente che erano le Indie Orientali, cioè il Giappone e la Cina; e, secondo i suoi calcoli e la sua conoscenza dei venti atlantici, pensava, come fu, che gli bastassero 70 giorni, navigando ad ovest verso sud, e tornando ad est da nord. Alla fine convinse Isabella, nonostante i malumori del marito, Ferdinando re d’Aragona, che non voleva complicazioni con il Portogallo: era, infatti, volto a una politica mediterranea, e nel 1503 diverrà anche re di Napoli.

 Colombo raggiunse una piccola isola dei Caraibi; ma gli bastò a intuire che fosse l’antemurale di territori molto più vasti. Compì subito un secondo viaggio, questa volta con una grande flotta e nobili e preti che sgomitavano per un imbarco (eh, la teoria della prima volta! la seconda, è abitudine); e altri due, ma con sempre minore fortuna, fino a venire arrestato e a morire in solitudine.

 Intanto la scoperta diveniva conquista. Le tre Americhe erano popolate da genti di diversissime lingue e culture. Alcune di queste erano avanzate e con vita urbana e organizzazione politica di ampio raggio; molte altre erano di tecnologia primitiva. I Maya erano scomparsi da tempo, ammazzandosi tra loro e sterminando i vicini a colpi di sacrifici umani di massa. Gli Aztechi, potentissimi e odiatissimi, vennero sconfitti da Cortes; e i popoli sottomessi si accorsero subito che il peggio potesse capitare loro dagli Spagnoli era una fortuna, in cambio di finire squartati vivi in onore del simpatico dio Uitzilopochtli, che gradiva i cuori ancora palpitanti. Quello con i Quequa (Incas) fu, dopo un momento di conflitto armato con Pizarro, parve quasi un incontro, e avvenne una rapida assimilazione, con nobili indigeni divenuti duchi e conti spagnoli; e tantissimi matrimoni misti.

 Più o meno spontaneamente, gli indigeni si convertirono al cattolicesimo, conservando tuttavia in parte riti e credenze e lingua. Gli Stati andini e il Messico sono in grande percentuale abitati da Indios.

 Quanto alle genti più primitive, è da loro che nacque, nel XVIII secolo, il falso mito – tuttora però dogma degli intellettuali incantati!!! – del buon selvaggio libero felice democratico perché in stato di natura; il quale non era, in nessuna parte del mondo e tanto meno nelle Americhe, né libero né democratico né felice, e soprattutto non era selvaggio e in stato di natura, ma un essere umano come tutti gli altri, quindi con molte più ombre che luci.

 Indios, li chiamo. Le terre scoperte da Colombo vennero credute e chiamate Indie, e Indios gli abitanti. Il tentativo politicamente corretto di chiamarli “nativi americani” è ridicolo non per nativi ma per americani: quasi per caso, le scoperte vennero battezzate non da Colombo, ma dal navigatore Amerigo Vespucci di Firenze. Insomma, gli Indios sono “nativi fiorentini”?

 Anno climaterico, quel 1492: scoperta dell’America; e, pochi mesi prima, conquista di Granada, ultimo possesso musulmano in Spagna, e fine, dopo sette secoli, della reconquista; e, per l’Italia, due eventi determinanti in peggio: la morte di Lorenzo de’ Medici e l’elezione di Alessandro VI.

Ulderico Nisticò