Suicidio legale


 Il divieto morale e legale di suicidio è cristiano. Gli antichi lo praticavano senza scrupoli religiosi, e non era vietato dalle leggi; lungo sarebbe l’elenco degli illustri che posero fine alla loro vita: Cleopatra, per togliere la soddisfazione del trionfo ad Ottaviano che l’aveva sconfitta e rifiutata; eccetera.

 Il cristianesimo, ritenendo la vita dono di Dio, afferma che l’uomo non può decidere la propria morte. Padre Dante pone i suicidi all’Inferno, trasformati in alberi morti, e dilaniati dalle Arpie. Vero però che egli stesso colloca Catone, il quale suicida morì, a custode del Purgatorio, e ne preannunzia il Paradiso. Ci sono dunque delle eccezioni al divieto?

 Si torna a parlare, e con una sentenza, di suicidio assistito per un ammalato gravissimo e irreversibile. Irreversibile, per quanto ne possa sapere la medicina, la quale è una scienza statistica e non esatta.

 Una persona in queste condizioni patisce sofferenze indicibili… e non sono fisiche, giacché la terapia del dolore ha fatto enormi progressi; è la condizione di inutilità dell’esistenza, è la noia di giornate senza alcun senso, è la certezza di dipendere da macchinari e farmaci. Farmaci e macchinari che, di tecnologia in tecnologia, potrebbero prolungare per altri anni questa non-vita e non-morte, e, teoricamente, per sempre.  

 Qual è il confine tra le cure e l’accanimento terapeutico? È una domanda cui è molto difficile, forse impossibile rispondere con esattezza; ma che ha un’ottima ragione. E un medico potrebbe opporre che senza l’accanimento terapeutico la medicina non sarebbe progredita com’è.

 Intanto, si apprende che il caso in parola già diviene uno dei tanti dell’infinita complicazione della vita pubblica italiana. La Corte costituzionale, che è maestra nell’arte del dire e non dire, ha espresso un parere per un caso precedente; il Comitato di bioetica approva il suicidio… a parte che il Comitato è consultivo, mica deliberativo, e quindi si arroga un potere che non ha, o i giornali glielo attribuiscono; risultato, il caso finisce come ormai finisce tutto in Italia, anche i voti a scuola: davanti a un giudice.

 E tutti sappiamo che i procedimenti giudiziari in Italia sono lentissimi: di media, 5 anni per il penale, e a babbo morto per il civile. Chissà se il giudice di Ancora sarà più veloce? Un giudice, ovviamente, di primo grado; poi c’è il secondo, senza scordare TAR e Cassazione e altro. E la sentenza, quando arriva?

 E chi rappresenta legalmente una persona che, con tutta evidenza, non è “compos sui”? E che fare dei suoi beni, che, fin quando è vivo, sono suoi?

 E subito qualcuno proclama, guarda un po’, che “ci vuole una legge”. Me la immagino già, con 666 articoli di cinquanta e più righe ciascuno; e subito cortei per pretendere il suicidio libero anche dei sani… E già, come insegna il Vico, “il vulgo per ogni particulare vuole una legge”, anche per ciò che nessuna legge può codificare caso per caso; e se non è una legge di dieci parole come le Tavole dei Romani, pensate alle interpretazioni, in un’Italia dove dilaga ormai la lingua italiana di Babele.

 Mi piacerebbe che di un così delicato argomento si discutesse sul serio, e da parte di chi è capace di esprimere un parere senza preoccuparsi del consenso o meno, o del politicamente scorretto o corretto, o delle prossime elezioni europee, statali, regionali, comunali o di condominio.

Ulderico Nisticò