Soverato Superiore – L’illusione del tempo nelle letture di Carmine Abate


C’è un antico borgo, a Soverato Superiore, con le sue viuzze strettissime e intrecciate come il centrino ricamato dalla nonna. Quello bello. Tondo. Ricco di merletti e figure geometriche che ogni nipote ha osservato con stuporoso incanto da bambino.
Ci sono le case. Quelle basse. Quelle con le scale esterne ripide. Ripidissime. Tanto ripide da far venire il capogiro al solo sguardo di chi le osserva. Quelle silenziose e solitarie. Quelle austere e solenni. Quelle che sono lì da sempre, da prima ancora di essere costruite. Quelle immuni al lavorio del tempo che scorre veloce e tutto cambia. Quelle sempre uguali. Così erano nei racconti della nonna, così erano quando le si vedevano per la prima volta da bambini. Così sono adesso. Scenario di un’esistenza magica al di là della realtà.
Ci sono delle candele sistemate ai piedi delle case, sui lati di due vie che si abbracciano, ad indicare la strada per chi sta cercando la meta.
C’è un piazzale. Piccolo. Piccolissimo. Che a guardare bene neanche c’è. Giusto lo spazio tra due case e un vecchio frantoio. “U chianu”. Che se ci entri dentro esiste e come! A ricordare che è esistito un tempo in cui bastava quel che si aveva.

Ci sono dei vecchi lampioni a illuminare tutt’intorno. Vecchi e grigi. Quelli di ferro che sporgono dai muri delle case. Quelli che hanno ingoiato una lampadina e ora la tengono stretta nella loro pancia a vetrate opache. Sono stanchi di restare lì dove sono sempre stati. Quasi si piegano sotto la morsa del loro stesso peso. Sono vecchi e stanchi. Come stanca è la luce che emanano. Leggera. Fioca. 
Flebile da costringere chi guarda a strizzare gli occhi per mettere a fuoco.
C’è l’odore di chiuso di quei posti dove l’aria fresca non arriva mai perché ci sono le due case e il frantoio e accanto ci sono altre case e dietro ci sono altre case e ancora case.
Ci sono le piante rampicanti con i fiori violetti e gli alberelli gracili che spuntano accanto alle porte ancora in legno posizionate al centro delle abitazioni e le piante grasse nei vasi marroni sistemate davanti le finestrelle basse, chiuse con le inferriate.
Ci sono i musicisti, tanti. Cataldo Perri accompagnato dal gruppo “Lo squintetto”. Suonano di antiche melodie e cantano di antiche tradizioni venute dal mare. Quelle malinconiche e struggenti che rievocano un passato così lontano da non essere mai esistito. Quando le donne con le gonne lunghe e i seni prosperosi andavano al fiume a lavare i panni e la sera tornavano a casa. E stanche, infinitamente stanche, si lasciavano andare al ritmo del tamburo e del canto disperato e rassegnato di chi sa che domani vivrà esattamente ciò che ha vissuto oggi. E così il giorno seguente. E quello dopo ancora. Suonano un tempo che non passa mai e che non cambia mai. Cantano di chi si trova lontano ma vorrebbe stare vicino. Allora il tamburo si trasforma in un battito ancestrale, quello del cuore che accelera a ritmo del ricordo.

C’è Carmine Abate che legge. La voce calda e bassa. Così reale da sussurrare agli occhi.
C’è un libro con le sue pagine. E nelle pagine c’è l’America e il nonno emigrante. Il primo ad esserlo.
C’è Norma Jeane con il suo neo dalla forma di un diamante incastonato tra le pieghe del sorriso. Ci sono le case, quelle che stanno lì accanto anche adesso, svuotate di tutto. Dei mobili. Del tavolo.
Degli armadi. Svuotate del cuore e dei polmoni. Svuotate perché dentro doveva prender vita il banchetto nuziale. C’è la frittata mare e monti della nonna che arriva in spiaggia e si inginocchia a baciare la sabbia, che vive in Calabria e finisce per diventare la Calabria stessa, perché ha radici al posto dei piedi. C’è un ragazzo che ama la famiglia ma è costretto a partire. Partire per il nord. La Germania. Tornare verso il sud. Il Trentino. Resta lontano dalla sua terra, che è anche la nostra. Ma ne resta ancorato. Perché quella nonna che ha descritto qualche pagina prima, per sbaglio, gli ha cucito il cuore alle tovaglie ancora conservate nel cassetto della cucina. Non può far altro che tornare. Torna da grande. Da scrittore affermato. Tornare nella sua terra a raccontare della sua terra.
C’è chi è arrivato sin lì, dove si incontrano due case e un vecchio frantoio, “u chianu”. Si siede al buio di quelle viuzze strette e irregolari che se becchi la sedia sbagliata metà musicisti li perdi di vista. Si siede e ascolta. E ricorda. Ecco che la nonna del libro diventa la nonna di tutti, quella sistemata nel lato più profondo della memoria ma che nei momenti di rievocazione torna sempre fresca e vivida davanti agli occhi. Ecco che il mare diventa il mare di tutti, quello della nostalgia e della gratitudine. 

Ecco che il dolore di partire diventa quello di tutti. Di chi è costretto ad andar via perché lontano si vive meglio. Di chi ancora non demorde e resta, perché prima o poi le cose cambieranno. C’è l’amarezza di constatare che qui giù, nelle più strette viuzze dei borghi antichi, le cose non cambiano mai. Chi ascolta adesso condivide gli stati d’animo di chi descrive le emozioni vissute il secolo scorso.
C’è lo splendore di una serata nella quale tempo e spazio si divertono a fare i birichini. Si divertono ad ingannare chi è giunto sin lì, convincendolo del fatto che per qualche ora si può premere il tasto off sulla frenetica vita quotidiana per respirare l’aria di un passato che non vuole passare, che si fa ancora centro di contenuto.

Floriana Ciccaglioni


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